Miscellanea
Sabato, 27 Gennaio 2018

…occorre la dimostrazione che il paracadute sia utile? Spesso sì!

A cura di Massimo Di Maio

Dopo un simpatico articolo pubblicato su BMJ nel 2003, spesso si prende il paracadute come esempio di un trattamento di cui è superfluo provare l’efficacia in studi randomizzati… Ma spesso il paragone è improprio: in medicina, ahimé, i paracadute sono pochi!

Hayes MJ, Kaestner V, Mailankody S, Prasad V. Most medical practices are not parachutes: a citation analysis of practices felt by biomedical authors to be analogous to parachutes. CMAJ Open. 2018 Jan 15;6(1):E31-E38. doi: 10.9778/cmajo.20170088. PubMed PMID: 29343497.

Nel 2003, Smith e Pell pubblicavano sulle pagine del British Medical Journal un simpatico articolo, che evidenziava l’assenza di studi randomizzati a sostegno dell’efficacia del paracadute nel prevenire le morti e i traumi dopo una caduta dall’aereo. Ovviamente il messaggio voleva essere provocatorio, per sottolineare che, in alcuni casi di intervento medico di efficacia lampante, non è realistico pretendere la dimostrazione di efficacia mediante un “classico” studio randomizzato.
Negli anni seguenti, quell’articolo è stato molto citato, spesso proprio per “difendere” trattamenti nonostante l’assenza di studi randomizzati.

A distanza di 15 anni, Hayes e colleghi pubblicano un lavoro altrettanto provocatorio, per sottolineare che il paragone con il paracadute è – ahimé - quasi sempre improprio, e molti trattamenti dall’efficacia apparentemente scontata si rivelano meno efficaci di quanto creduto.

Impiegando una ricerca bibliografica mediante Google Scholar, gli autori hanno identificato tutte le pubblicazioni che hanno citato il lavoro del 2003 di Smith e Pell, selezionando in particolare tutte le pubblicazioni in cui gli autori avessero paragonato la pratica in oggetto all’impiego del paracadute.

Quindi, per ciascuna delle pratiche mediche così identificate, Hayes e colleghi hanno cercato sia in Google Scholar che in ClinicalTrials.gov l’esistenza di eventuali studi randomizzati, sia condotti e portati a termine, sia in corso, sia pianificati, sia eventualmente condotti ma non pubblicati.

Obiettivo dell’analisi era appunto quello di vedere che risultato ottengono, in un confronto randomizzato, le pratiche che, secondo qualche autore, avrebbero un’efficacia ovvia come quella del paracadute.

Su un totale di 822 articoli che citavano il paper del 2003, 35 pubblicazioni (pari al 4.1%) esplicitavano l’affermazione che la pratica medica di cui si parlava fosse paragonabile al paracadute. In particolare, in termini di outcome, 18 articoli (51%) prendevano in considerazione la mortalità, e 17 articoli (pari al 49%) riguardavano un outcome diverso dalla sopravvivenza.

La ricerca sui registri ha portato all’identificazione di uno studio randomizzato in 22 casi, pari al 63% dei suddetti interventi.

Che efficacia ha dimostrato il trattamento nel contesto di uno studio randomizzato? In 6 casi, pari al 27%, lo studio ha mostrato un vantaggio statisticamente significativo a favore del trattamento sperimentale. Al contrario, in 5 casi (pari al 23%) lo studio si è concluso con un risultato negativo; in ulteriori 5 casi, lo studio presentava risultati “interlocutori”, in 2 casi (9%), lo studio era stato interrotto e in 4 casi (pari al 18%), lo studio era ancora in corso.

In 5 dei 6 trattamenti con risultato positivo era stato possibile calcolare la dimensione del beneficio: la riduzione assoluta del rischio è risultata compresa tra l’11% e il 30.8%, con un “number needed to treat” (numero di pazienti che è necessario sottoporre al trattamento perché 1 se ne benefici) compreso tra circa 3 e 9.

I risultati della simpatica pubblicazione di Hayes e colleghi si prestano a più commenti. Innanzitutto, il fatto stesso che gli autori abbiano identificato uno studio randomizzato (concluso o almeno pianificato) in oltre la metà dei casi di trattamenti che qualche autore aveva definito dall’efficacia ovvia, dimostra che spesso il paragone con il paracadute viene usato con eccessiva facilità.

Ancora più importante è il fatto che, quando effettivamente sottoposta al vaglio di uno studio randomizzato, l’efficacia si rivela spesso assente, o comunque meno clamorosa di quanto qualcuno ipotizza.

Lo studio non era condotto in ambito oncologico, ma i risultati si applicano comunque anche alle terapie impiegate in oncologia.

In primo luogo, mentre i farmaci sono attualmente sottoposti a un rigoroso percorso registrativo, spesso la dimostrazione di efficacia di dispositivi, o tecniche non farmacologiche (es. chirurgia, o trattamenti locali), in molte indicazioni è associata a un livello di evidenza molto basso. Naturalmente, quando un trattamento viene introdotto nella pratica clinica e diventa “standard”, diventa poi molto difficile, se non impossibile, condurre uno studio randomizzato per testarne l’efficacia. Bisognerebbe quindi fare ogni sforzo per pretendere, nei limiti della fattibilità, dimostrazioni solide di efficacia prima della diffusione di tecniche e procedure nella pratica clinica.

In secondo luogo, anche in ambito farmacologico, capita spesso, nell’era della medicina molecolare, di trovarsi in situazioni di popolazioni di pazienti numericamente limitate (ad esempio per la rarità della patologia o della presenza dell’alterazione molecolare bersaglio del trattamento), in cui sembra oggettivamente difficile condurre studi randomizzati. Ebbene, anche in questo caso c’è il rischio che l’efficacia sia meno “ovvia” e clamorosa di quanto suggerito dal razionale e dalle evidenze non controllate. Da questo punto di vista, la randomizzazione in fase molto precoce dello sviluppo di questi farmaci, con un gruppo di controllo anche se numericamente limitato, potrebbe migliorare la nostra capacità di quantificare il beneficio rispetto ai trattamenti già esistenti.