Immunoterapia
Giovedì, 29 Aprile 2021

Immunoterapia upfront nel carcinoma ovarico: risultati di un trial randomizzato

A cura di Giuseppe Aprile

Il trial IMagyn050 indaga il ruolo della combinazione tra la terapia standard (carboplatino/taxolo + bevacizumab) e atezolizumab per donne con carcinoma ovarico in stadio FIGO III o IV che hanno ricevuto o per le quali sia stata pianificata chirurgia citoriduttiva. Pubblicati i risultati preliminari della sperimentazione.

Moore KN, et al. Atezolizumab, Bevacizumab, and Chemotherapy for Newly Diagnosed Stage III or IV Ovarian Cancer: Placebo-Controlled Randomized Phase III Trial (IMagyn050/GOG 3015/ENGOT-OV39). J Clin Oncol 2021 epub Apr 23.

Due classi di farmaci hanno modificato il panorama della prima linea di trattamento del carcinoma ovarico avanzato di nuova diagnosi: gli antiangiogenici (ergo, bevacizumab) con i risultati degli studi randomizzati GOG-0218 e ICON7 e gli inibitori di PARP (olaparib, niraparib, rucaparib e veliparib) come dimostrato dagli studi PAOLA-1, SOLO-1, PRIMA e VELIA.

Nel contempo, il poter combinare la strategia antiangiogenica con l'immunoterapia ha prodotto risultati decisamente interessanti in altre patologie (rene, epatocarcinoma, NSCLC e carcinoma endometriale, tra gli altri), in particolare sfruttando la combinazione sinergica tra bevacizumab e atezolizumab, indipendentemente dalla espressione immunoistochimica di PD-L1. Infatti, il VEGF ha potere immunosoppressivo nella patologia ovarica, tramite il calo dell'infiltrazione peritumorale degli effettori T, la riduzione della funzione soppressiva dei linfociti T e l'induzione della proliferazione dei Treg.

Con queste premesse è stato disegnato lo studio IMagyn050, un trial randomizzato internazionale con una importante partecipazione italiana, che ha arruolato 1.300 pazienti con carcinoma ovarico epiteliale, delle tube di Falloppio o con primitività peritoneale già sottoposte a chirurgia di citoriduzione primaria o a una chemioterapia neoadiuvante seguita da chirurgia citoriduttiva di intervallo.

Tra i criteri di eleggibilità nello studio ricordiamo il PS ECOG 0-2, la disponibilità di tessuto istopatologico per la determinazione di PD-L1 e la stadiazione di neoplasia in stadio III o IV secondo FIGO.
I fattori di stratificazione erano lo stadio di malattia (III vs IV), il PS (0 vs 1/2), il setting di trattamento (adiuvante vs neoadiuvante) e il livello di espressione di PD-L1 (inferiore all’1% vs 1% e oltre) misurato con VENTANA SP-142.

Le pazienti sono state randomizzate in doppio cieco a un trattamento con paclitaxel, carboplatino (AUC 6), bevacizumab e atezolizumab per 6 cicli, seguiti da bevacizumab e atezolizumab per ulteriori 16 cicli, oppure a un regime standard composto da paclitaxel, carboplatino, bevacizumab e placebo per 6 cicli.

I due co-primary endpoint della sperimentazione erano la PFS investigator-assessed e la sopravvivenza globale, testate simultaneamente nelle pazienti PD-L1-positive e nella popolazione ITT. Tuttavia, il disegno statistico prevedeva per la PFS il test in parallelo nei due gruppi (ITT e PD-L1 positive), mentre per OS il test era gerarchicamente testato in primis nella popolazione PD-L1\ positiva.

I risultati preliminari dello studio sono stati presentati in orale ad ESMO 2020 ed ora pubblicati sul J Clin Oncol, con una durata mediana del follow-up di 20 mesi.

Lo studio non ha raggiunto il suo endpoint primario, quindi è formalmente negativo.

Nella popolazione ITT (1301 pazienti), la PFS è risultata di 19.5 mesi per il gruppo trattato con la combinazione sperimentale a quattro farmaci vs 18.4 mesi per il gruppo di controllo (HR 0.92; 95%CI 0.79-1.07; P = 0.28); nella popolazione di pazienti con neoplasia PD-L1-positiva (784) la PFS mediana è risultata di circa 21 mesi nel braccio con atezolizumab vs 18.5 mesi in quello con placebo (HR 0.80; 95%CI 0.65-0.99; P = 0.038).

Interessante notare che un’analisi esploratoria ha suggerito una tendenza a favore di atezolizumab in PFS nel sottogruppo di pazienti con espressione di PD-L1 superiore al 5% (260 pazienti, circa il 20% della casistica). In queste pazienti, la PFS mediana non è stata raggiunta nel braccio atezolizumab, mentre è risultata di 20 mesi circa nel braccio standard (HR 0,64).

I dati di sopravvivenza overall, sebbene largamente immaturi (eventi registrati in meno del 20% delle pazienti incluse), sono in linea con quelli di PFS e non dimostrano alcun vantaggio per l'introduzione upfront dell'atezolizumab in termini di sopravvivenza a due anni né nella popolazione ITT (81% vs 79%) né nella popolazione PD-L1 positiva (82% vs 83%).

Come atteso, i più frequenti effetti collaterali sono stati la neutropenia G3-G4 (circa 20%), l'ipertensione arteriosa (circa 20%) e l'anemia (circa 10%), senza sostanziali differenze tra i due bracci di trattamento.

Noti i dati di una limitata sensibilità della neoplasia ovarica chemioresistente all'immunoterapia, l'ipotesi degli sperimentatori era duplice: verificare se la sensibilità potesse essere maggiore in una popolazione meno trattata e testare la combinazione sinergica tra bevacizumab e atezolizumab che ha dato grandi soddisfazioni in altre malattie oncologiche.

Lo studio IMagyn050, invece, non ha dimostrato la superiorità in efficacia della terapia di combinazione (chemioterapia + bevacizumab + atezolizumab) vs lo standard (chemioterapia + bevacizumab), quindi non può confermare la sinergia tra antiangiogenico e immunoterapico anche nella patologia ovarica.

I dati del trial sono peraltro coerenti con quelli di altri studi clinici che hanno testano in un setting simile avelumab (es: JAVELIN-OVARIAN 100).

Interessante tuttavia il dato di prolungamento della PFS ottenuto nella popolazione con elevata espressione di PD-L1, che deve essere considerata generatore di ipotesi da testare in prospettico.

Rimangono da stabilire i motivi generali della relativa insensibilità delle neoplasie ovariche all'immunoterapia, se i risultati del trial possano essere influenzati da uno sbilanciamento nei due bracci delle HRD e mutazioni BRCA (non era considerato come fattore di stratificazione), se sia possibile selezionare meglio le pazienti che possono beneficiare dalla combinazione e se l'utilizzo di atezolizumab possa avere migliore esito se combinato con una differente backbone chemotherapy (alcuni trial sono in corso).