Immunoterapia
Sabato, 19 Settembre 2020

Avelumab nel tumore della vescica: verso un nuovo standard.

A cura di Massimo Di Maio

Dopo la presentazione all’ASCO di qualche mese fa, pubblicati sul New England Journal of Medicine i risultati dello studio JAVELIN, che ha dimostrato un prolungamento della sopravvivenza globale impiegando l’immunoterapia come mantenimento dopo la chemioterapia con platino nei pazienti con tumore dell’urotelio metastatico.

Powles T, Park SH, Voog E, Caserta C, Valderrama BP, Gurney H, Kalofonos H, Radulović S, Demey W, Ullén A, Loriot Y, Sridhar SS, Tsuchiya N, Kopyltsov E, Sternberg CN, Bellmunt J, Aragon-Ching JB, Petrylak DP, Laliberte R, Wang J, Huang B, Davis C, Fowst C, Costa N, Blake-Haskins JA, di Pietro A, Grivas P. Avelumab Maintenance Therapy for Advanced or Metastatic Urothelial Carcinoma. N Engl J Med. 2020 Sep 18. doi: 10.1056/NEJMoa2002788. Epub ahead of print. PMID: 32945632.

La chemioterapia contenente platino è, da anni, la terapia standard di prima linea per i pazienti affetti da una neoplasia uroteliale avanzata.

Nella pratica clinica recente, la novità terapeutica più importante in questo setting, dopo i modesti risultati ottenuti con il trattamento chemioterapico di seconda linea, è stata la disponibilità del trattamento immunoterapico, per i pazienti in progressione di malattia dopo la terapia con platino.

E’ noto che, al momento della progressione di malattia, le condizioni cliniche dei pazienti non sono sempre compatibili con un trattamento attivo: il deterioramento del performance status e il peggioramento dei sintomi fanno sì che non tutti i pazienti siano candidati a ricevere l’immunoterapia o in generale un trattamento attivo.

Da questo punto di vista, un trattamento di mantenimento, iniziato non alla progressione di malattia ma al momento del completamento della chemioterapia di prima linea, consentirebbe di offrire l’opportunità di esposizione al trattamento a un numero maggiore di pazienti, nel momento in cui la malattia è controllata dal precedente trattamento chemioterapico e le condizioni cliniche sono mediamente migliori.

Lo studio di fase III Javelin è stato condotto in pazienti affetti da neoplasia uroteliale avanzata / metastatica, che avessero ricevuto 4 -6 cicli di chemioterapia di prima linea con cisplatino + gemcitabina oppure con carboplatino + gemcitabina e che, al completamento di tali cicli, non fossero in progressione.

Lo studio prevedeva la randomizzazione a immunoterapia con avelumab (alla dose di 10 mg per kg di peso corporeo, ogni 2 settimane) in aggiunta alla terapia di supporto (braccio sperimentale) oppure a sola terapia di supporto.

Endpoint primario dello studio era la sopravvivenza globale, misurata sia nella popolazione complessiva intention-to-treat, sia nel sottogruppo di casi selezionati per espressione di PDL1, secondo una articolata definizione basata sulla percentuale di cellule tumorali positive per PDL1, sulla quantità di infiltrato immunitario e sulla percentuale di cellule immunitarie positive per PDL1. La sopravvivenza libera da progressione era endpoint secondario dello studio.

Lo studio ha visto la randomizzazione di 700 pazienti. L'età mediana era di poco inferiore ai 70 anni, poco più di metà dei pazienti aveva metastasi viscerali e poco più di metà dei pazienti aveva ricevuto cisplatino. Circa tre quarti dei pazienti avevano ottenuto una risposta al trattamento chemioterapico, e i rimanenti avevano una malattia stabile.

Nella popolazione complessiva dello studio, è stato osservato un significativo prolungamento della sopravvivenza globale nel braccio sperimentale assegnato al trattamento con avelumab rispetto al braccio di controllo.
La sopravvivenza mediana è risultata pari a 21.4 mesi nel braccio sperimentale rispetto a 14.3 mesi nel braccio di controllo (delta 7 mesi); la probabilità di essere in vita a 1 anno è risultata pari a 71.3% nel braccio sperimentale rispetto al 58.4% nel braccio di controllo (hazard ratio 0.69; intervallo di confidenza al 95% 0.56 - 0.86; p = 0.001).

Il mantenimento con avelumab è risultato associato a un prolungamento della sopravvivenza globale anche nel sottogruppo di casi selezionati per la positività dell’espressione di PD-L1. Nel dettaglio, in questo sottogruppo la probabilità di essere in vita a 1 anno è risultata pari al 79.1% nel braccio sperimentale trattato con avelumab e pari al 60.4% nel braccio di controllo (hazard ratio 0.56; intervallo di confidenza al 95% 0.40 - 0.79; p<0.001).

La sopravvivenza libera da progressione è risultata significativamente migliore nel braccio sperimentale:

  • nella popolazione complessiva, mediana 3.7 mesi con avelumab e 2.0 mesi nel braccio di controllo (hazard ratio 0.62; intervallo di confidenza al 95% 0.52 - 0.75)
  • nella popolazione selezionata per la positività di PDL1, mediana 5.7 mesi con avelumab vs 2.1 mesi nel braccio di controllo (hazard ratio 0.56; intervallo di confidenza al 95% 0.43 - 0.73). 

L’incidenza di eventi avversi di ogni grado è risultata pari a 98.0% dei pazienti nel braccio sperimentale e pari al 77.7% nel braccio di controllo; l’incidenza dei soli eventi avversi severi (grado 3 o superiore) è risultata pari al 47.4% nel braccio sperimentale e al 25.2% nel braccio di controllo.

I risultati principali dello studio erano già noti alla comunità scientifica dall’inizio di giugno, in quanto presentati in sessione plenaria all’ASCO 2020. La pubblicazione in extenso è molto importante, in quanto consente di leggere i dettagli di uno studio che, prima ancora di questa pubblicazione, è stato al centro dell’attenzione in quanto candidato a modificare la pratica clinica nel prossimo futuro.

Finora, in questo setting, l’immunoterapia aveva già dimostrato un beneficio significativo quando usata come terapia di seconda linea, dopo il fallimento della chemioterapia di prima linea. Ancora incerto, alla luce di alcuni risultati già pubblicati e di altri ancora pendenti, è il ruolo dell’aggiunta dell’immunoterapia in aggiunta alla chemioterapia di prima linea. Il mantenimento, come nello studio JAVELIN, è una “via di mezzo” in linea di principio molto interessante, in quanto evita la somministrazione concomitante con la chemioterapia di prima linea, rappresentando invece una sorta di anticipazione del trattamento di seconda linea offerto quando la malattia è controllata dalla chemioterapia.

Il disegno ideale degli studi di mantenimento ci riporta, peraltro, a un dibattito scientifico già molto acceso vari anni fa nel tumore del polmone. Per produrre risultati solidi a sostegno dell’efficacia della terapia sperimentale, in uno studio di mantenimento il braccio di controllo deve ricevere il miglior trattamento possibile, soprattutto al momento della progressione di malattia.

In linea teorica, quando il farmaco sperimentale (o farmaci della stessa classe, come nel caso dell’immunoterapia) rappresenta la terapia di seconda linea standard (con una provata efficacia in termini di sopravvivenza globale), il disegno ideale di uno studio di mantenimento deve prevedere che tutti i pazienti in progressione nel braccio di controllo ricevano il “cross-over” al trattamento sperimentale, in questo caso l’immunoterapia. Nel caso dello studio Javelin, non tutti i pazienti del braccio di controllo hanno ricevuto un trattamento attivo a progressione (e questo è atteso, a causa dello scadimento delle condizioni, anzi questo rappresenta un valore aggiunto per provare ad anticipare il trattamento mediante il mantenimento). Meno atteso è che una percentuale non piccola di pazienti del braccio di controllo che, al momento dell progressione hanno ricevuto un trattamento attivo non abbia ricevuto immunoterapia (153 pazienti che hanno ricevuto immunoterapia a fronte di 216 pazienti che hanno ricevuto un trattamento attivo).

Pur con questi limiti, è ragionevole pensare che avelumab sarà parte dell’algoritmo terapeutico autorizzato dalle autorità regolatorie e raccomandato dalle linee guida nel prossimo futuro. Come spesso ci capita di commentare, rimangono aperti molti quesiti, in primis la migliore caratterizzazione dei pazienti che si beneficiano del trattamento, in quanto l’analisi di sottogruppo basata sull’espressione di PDL1, rispetto alla popolazione complessiva non selezionata, non ha fornito risultati "decisivi".