Immunoterapia
Sabato, 12 Novembre 2016

Quando il tumore è “stupido” l’immunoterapia non funziona?

A cura di Massimo Di Maio

Le evidenze sull’efficacia dell’immunoterapia nei pazienti con tumore del polmone con mutazione di EGFR (in passato definiti “stupidi” in quanto dipendenti da una singola alterazione) sono poco chiare. Una metanalisi prova a fare il punto sull’evidenza disponibile.

Lee CK, Man J, Lord S, Links M, Gebski V, Mok T, Yang JC. Checkpoint Inhibitors in Metastatic EGFR-Mutated Non-Small Cell Lung Cancer-A Meta-Analysis. J Thorac Oncol. 2016 Oct 17. pii: S1556-0864(16)31167-4. doi: 10.1016/j.jtho.2016.10.007. [Epub ahead of print] PubMed PMID: 27765535.

L’evidenza relativa all’attività e all’efficacia dei farmaci anti-PD1 e anti-PDL1 nei pazienti con tumore del polmone non a piccole cellule avanzato, caratterizzati dalla presenza di mutazione di EGFR, è contraddittoria.

Studi preclinici hanno documentato l’attività del trattamento anche in tumori caratterizzati da mutazione di EGFR, mentre un’analisi retrospettiva di pazienti con mutazione di EGFR o traslocazione di ALK, trattati con immunoterapia, ha evidenziato una percentuale di attività più bassa rispetto ai casi senza oncogene addiction (Gainor et al, Clin Cancer Res 2016).

Negli studi randomizzati che hanno confrontato un immune checkpoint inhibitor (nivolumab o pembrolizumab o atezolizumab) con la chemioterapia standard (docetaxel) come trattamento di seconda linea del tumore del polmone, una limitata percentuale di pazienti presentava mutazione di EGFR. Il dato ottenuto in tale sottogruppo si presta ad una revisione sistematica degli studi esistenti, nel tentativo di fornire, almeno a livello esplorativo, un dato di sintesi complessiva dell’evidenza relativa all’efficacia dell’immunoterapia in tale sottopopolazione di pazienti.
Gli autori del lavoro recentemente pubblicato sul Journal of Thoracic Oncology hanno quindi condotto una revisione sistematica degli studi randomizzati di confronto tra immune checkpoint inhibitors e chemioterapia come trattamento di seconda linea del NSCLC avanzato. La revisione ha ricercato sia studi pubblicati in extenso, sia studi presentati ai maggiori congressi internazionali (ASCO, ESMO, IASLC).

Endpoint primario dell’analisi era la sopravvivenza globale.

Gli autori hanno estratto da ciascuna pubblicazione il dato di sopravvivenza globale (Hazard Ratio per immune checkpoint inhibitor vs. chemioterapia), sia nella popolazione globale che nei sottogruppi definiti sulla base dello stato mutazionale di EGFR.

Oltre a presentare il dato dell’efficacia relativa dell’immunoterapia rispetto alla chemioterapia in ciascuno dei 2 sottogruppi (casi EGFR mutati e casi EGFR wild type), gli autori hanno eseguito un test di interazione tra l’efficacia del trattamento e lo stato mutazionale di EGFR, per descrivere l’eventuale differenza nell’efficacia dei 2 trattamenti in base alla presenza o all’assenza della mutazione.

La ricerca ha portato all’identificazione di 3 studi:

  1. Lo studio Checkmate 057, che confrontava nivolumab e docetaxel;
  2. Lo studio Keynote 010, che confrontava pembrolizumab e docetaxel;
  3. Lo studio POPLAR, che confrontava atezolizumab e docetaxel.

Complessivamente, i 3 studi hanno randomizzato 1903 pazienti, e lo stato mutazionale di EGFR era noto in 1548 pazienti (pari all’81% della popolazione di pazienti randomizzati).

Nella popolazione complessiva, il trattamento con un immune checkpoint inhibitor (nivolumab o atezolizumab o pembrolizumab) è risultato associato ad un prolungamento significativo della sopravvivenza globale rispetto a docetaxel (Hazard Ratio 0.68, intervallo di confidenza al 95%: 0.61 – 0.77, p<0.0001), senza eterogeneità significativa tra i tre studi.

Nel sottogruppo di pazienti EGFR wild-type (n=1362), analogamente alla popolazione complessiva, l’immunoterapia è risultata associata a una significativo prolungamento della sopravvivenza globale (Hazard Ratio 0.66, intervallo di confidenza al 95% 0.58 - 0.76, p <0.0001), anche in questo caso senza eterogeneità significativa tra gli studi.

Nel sottogruppo di pazienti con mutazione di EGFR (n=186), l’analisi congiunta dei 3 studi non documenta alcuna differenza significativa in sopravvivenza globale (Hazard Ratio 1.05, intervallo di confidenza al 95% 0.70 - 1.55, p=0.81), senza eterogeneità significativa tra gli studi.

L’interazione tra il trattamento e lo stato mutazionale di EGFR è risultata statisticamente significativa (p=0.03)

E’ stato spesso suggerito che la presenza di un driver quale la mutazione di EGFR sia mediamente associata ad un più basso carico mutazionale complessivo del tumore, e tale basso carico mutazionale potrebbe corrispondere ad un più basso carico di neo-antigeni e quindi ad una minore “violenza” della risposta immunitaria “scatenabile” nei confronti delle cellule tumorali.

Gli autori ribadiscono che la loro analisi è da considerare generatrice di ipotesi, e non definitiva. D’altra parte, il risultato suggerisce, con una importante omogeneità tra gli studi considerati, che il beneficio dell’immunoterapia rispetto al docetaxel sia limitato ai casi senza mutazione di EGFR.

Il risultato della metanalisi è rafforzato dal risultato del sottogruppo di pazienti EGFR mutati nello studio OAK (confronto in seconda linea tra atezolizumab e docetaxel), recentemente presentato all’ESMO e pubblicato, ma non incluso nella metanalisi. Nello studio OAK, il risultato ottenuto nella popolazione complessiva a favore di atezolizumab è chiaro nel sottogruppo di pazienti EGFR wild type (Hazard Ratio 0.69, mediana di sopravvivenza 15.3 mesi per atezolizumab vs. 9.5 mesi per docetaxel), mentre non si evidenzia alcun vantaggio per l’immunoterapia negli 85 pazienti con mutazione di EGFR (Hazard Ratio 1.24, mediana di sopravvivenza 10.5 mesi con atezolizumab e 16.2 mesi con docetaxel).

Naturalmente, il risultato pubblicato da Lee e colleghi non vuole - e non può - mettere la parola “fine” al ruolo dell’immunoterapia nella sottopopolazione di pazienti con mutazione di EGFR. E’ innegabile, d’altronde, che il recente sviluppo di farmaci target dedicati non solo al trattamento di prima linea, ma anche al trattamento delle resistenze comparse in corso di terapia, rappresenti una “sfida” per capire se e quale sia l’esatta possibile collocazione dell’immunoterapia in questi pazienti.

Non sappiamo, ad esempio, se la combinazione di diversi farmaci (ad esempio un farmaco anti-PD1 e un farmaco anti-CTLA4) possa essere più efficace nello scatenare la risposta immunitaria anche in casi caratterizzati da un basso carico mutazionale e da un basso livello di neoantigeni. Nella discussione, Lee e colleghi ipotizzano alcuni scenari di ricerca: ad esempio, uno studio randomizzato di confronto tra un inibitore di nuova generazione di T790M e una combinazione di più farmaci immunoterapici, oppure la combinazione di immunoterapia e farmaco target di nuova generazione. Inoltre, l’efficacia dell’immunoterapia dovrebbe essere testata anche nei pazienti in progressione ma in assenza di mutazione T790M, oppure nei casi T790M in progressione dopo aver già ricevuto un farmaco target di nuova generazione.