Immunoterapia
Sabato, 25 Febbraio 2017
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L’immunoterapia nei tumori uroteliali: le evidenze “practice-changing” si accumulano

A cura di Massimo Di Maio

Dopo gli studi non randomizzati di atezolizumab e nivolumab, il trial randomizzato KEYNOTE-045 documenta l’efficacia di pembrolizumab come terapia di seconda linea del carcinoma uroteliale avanzato…

Bellmunt J, de Wit R, Vaughn DJ, Fradet Y, Lee JL, Fong L, Vogelzang NJ, Climent MA, Petrylak DP, Choueiri TK, Necchi A, Gerritsen W, Gurney H, Quinn DI, Culine S, Sternberg CN, Mai Y, Poehlein CH, Perini RF, Bajorin DF; KEYNOTE-045 Investigators.. Pembrolizumab as Second-Line Therapy for Advanced Urothelial Carcinoma. N Engl J Med. 2017 Feb 17. doi: 10.1056/NEJMoa1613683. [Epub ahead of print] PubMed MID: 28212060.

Nonostante la possibilità di impiegare, almeno nei pazienti in buone condizioni generali al momento della progressione, una terapia di seconda linea per il carcinoma uroteliale avanzato, la prognosi in questo setting rimane cattiva, e l’aspettativa di vita molto limitata.

Negli ultimi anni, sono stati prodotti risultati di attività con vari inibitori di immuno-checkpoint, come atezolizumab, anticorpo monoclonale anti-PDL1, che ha dimostrato attività sia come alternativa alla chemioterapia di prima linea a base di platino, nei pazienti che fossero stati giudicati unfit per tale trattamento, sia come trattamento di seconda linea dopo il platino. Anche il nivolumab ha dimostrato attività in questo setting. La FDA ha approvato atezolizumab nel 2016, e nivolumab nel febbraio 2017.

In questo difficile setting (seconda linea dopo chemioterapia a base di platino) è stato appena pubblicato uno studio randomizzato di fase III, che valutava l’efficacia di pembrolizumab, anticorpo monoclonale anti-PD1. I pazienti eleggibili per lo studio erano stati pretrattati con una chemioterapia a base di platino, e venivano randomizzati a ricevere il trattamento sperimentale (pembrolizumab, alla dose fissa di 200 mg ogni 3 settimane) oppure un trattamento di controllo a scelta dello sperimentatore (paclitaxel, oppure docetaxel, oppure vinflunina).

Endpoint co-primari dello studio erano la sopravvivenza globale e la sopravvivenza libera da progressione.

L’analisi principale era condotta in due popolazioni di pazienti: l’intera popolazione inserita in studio, e la popolazione dei soli pazienti con tumore positivo per espressione di PD-L1. La valutazione dell’espressione di PD-L1 prevedeva un punteggio combinato sulla base della percentuale di cellule tumorali e di cellule dell’infiltrato positive per PD-L1 rispetto al numero totale di cellule tumorali, e per la definizione di positività è stato adottato un cutoff del 10%.

 Nella popolazione complessiva dei pazienti randomizzati, la sopravvivenza mediana è risultata pari a 10.3 mesi nel braccio trattato con pembrolizumab, e 7.4 mesi nel braccio di controllo trattato con chemioterapia (hazard ratio di morte 0.73; intervallo di confidenza al 95% 0.59 - 0.91; P=0.002).

Nella popolazione di pazienti selezionati per la positività di PD-L1 superiore al 10%, la sopravvivenza mediana è risultata pari a 8.0 mesi nel braccio trattato con pembrolizumab, e 5.2 mesi nel braccio trattato con chemioterapia (hazard ratio 0.57; intervallo di confidenza al 95% 0.37 - 0.88; P=0.005).

Sia nella popolazione complessiva, che nella popolazione di pazienti selezionati per la positività di PD-L1 con il cutoff del 10%, non è risultata una differenza significativa tra i due bracci di trattamento in termini di sopravvivenza libera da progressione.

Nel dettaglio, l’hazard ratio di progressione o morte è risultato pari a 0.98 (intervallo di confidenza al 95% 0.81 - 1.19; P=0.42) nella popolazione complessiva, e pari a 0.89 (intervallo di confidenza al 95% 0.61 - 1.28; P=0.24) nella popolazione di pazienti selezionati per la positività di PD-L1.

Nel complesso, la percentuale di pazienti con eventi avversi di qualsiasi grado è risultata significativamente minore nel braccio trattato con pembrolizumab (60.9%) rispetto al braccio trattato con chemioterapia (90.2%). Analogamente, la percentuale di pazienti con eventi avversi di grado severo (3,4 o 5) è risultata significativamente più bassa con pembrolizumab (15.0%) rispetto alla chemioterapia (49.4%).

Lo studio KEYNOTE-045 ha documentato un’efficacia significativamente migliore con l’impiego del pembrolizumab rispetto a una chemioterapia di seconda linea, nel difficile setting dei pazienti con carcinoma uroteliale avanzato che abbiano fallito una chemioterapia di prima linea con platino.

Dopo l’approvazione di atezolizumab e nivolumab, il palcoscenico degli immuno-checkpoint inibitori nel carcinoma uroteliale avanzato inizia a farsi affollato, e il pembrolizumab si presenta all’attenzione generale con uno studio randomizzato di fase III pubblicato sulle prestigiose pagine del New England. Entrambi i farmaci che hanno ottenuto un’approvazione accelerata da parte dell’autorità regolatoria, hanno ottenuto tale risultato sulla base di studi di fase II, non randomizzati.

Nell’editoriale che accompagna la pubblicazione dello studio, Sonpavde pone a se stesso e ai lettori alcune domande, destinate, almeno per il momento, a rimanere senza risposta.

La prima domanda è : c’è differenza tra nivolumab, atezolizumab e pembrolizumab in termini di efficacia? Ovviamente, in assenza di confronti diretti, non abbiamo una risposta solida. D’altra parte, come sottolinea giustamente l’autore, il livello di evidenza prodotto da uno studio randomizzato di fase III è almeno sulla carta più robusto rispetto all’evidenza di studi di fase II non randomizzati.

La seconda domanda è la “solita”: ha senso misurare l’espressione di PD-L1 per selezionare i pazienti eleggibili per il trattamento? E se ha senso, come misurarla e con che cut-off? L’analisi presentata nello studio KEYNOTE-045, essendo basata su uno score “combinato” di espressione su cellule tumorali e su cellule interstiziali, e scegliendo il cutoff del 10%, ci ricorda se non altro che l’argomento, almeno al momento, è alquanto confuso. Sono tante le differenze, non solo tra un farmaco e l’altro, ma anche tra gli studi condotti con il medesimo farmaco in tumori diversi.

In conclusione, possiamo essere d’accordo con Sonpavde nel definire “practice –changing” i risultati ottenuti dal pembrolizumab nei pazienti con neoplasia uroteliale avanzata, ma ancora una volta sono tanti i quesiti aperti, e probabilmente lo rimarranno anche al momento dell’introduzione di questo farmaco (e degli altri della classe) nella pratica clinica.