Immunoterapia
Sabato, 11 Dicembre 2021

Quello che le curve non dicono…

A cura di Massimo Di Maio

Spesso le curve di alcuni sottogruppi non sono presentate nelle pubblicazioni, lasciando in particolare il dubbio sull’efficacia dell’immunoterapia nei casi con bassa espressione di PDL1. Un algoritmo consente di “aggirare” la mancanza del dato nella pubblicazione, ricavandola dalle altre curve presentate…

Zhao JJ, Yap DWT, Chan YH, Tan BKJ, Teo CB, Syn NL, Smyth EC, Soon YY, Sundar R. Low Programmed Death-Ligand 1-Expressing Subgroup Outcomes of First-Line Immune Checkpoint Inhibitors in Gastric or Esophageal Adenocarcinoma. J Clin Oncol. 2021 Dec 3:JCO2101862. doi: 10.1200/JCO.21.01862. Epub ahead of print. PMID: 34860570.

Ci sono diversi studi, in vari tipi di tumori solidi, in cui l’immunoterapia ha dimostrato efficacia nella popolazione trattata, non selezionata per il livello di espressione di PDL1. Ciononostante, in vari casi, il beneficio è nettamente maggiore osservando le curve di sopravvivenza dei soli casi con espressione elevata di PDL1, facendo ipotizzare che il beneficio sia molto più modesto (o potenzialmente nullo) nei casi con espressione bassa. In più di una occasione, però, le curve di quest’ultimo sottogruppo non sono state presentate nelle rispettive pubblicazioni, che riportavano, come pianificato dal protocollo, la curva nella popolazione complessiva e la curva nella popolazione con elevata espressione.

Il dubbio legittimo è che il risultato nella popolazione complessiva sia “trascinato” dall’efficacia nei casi con elevata espressione. Appare dunque legittima la curiosità di vedere l’efficacia negli altri casi.

Un esempio della suddetta situazione si è verificato nel tumore gastrico o della giunzione gastroesofagea. Nivolumab è stato approvato dalla FDA per il trattamento di prima linea in combinazione con la chemioterapia, indipendentemente dall’espressione di PDL1. Che efficacia ha l’immunoterapia nei casi con bassa espressione?

Per rispondere a questo quesito, gli autori dello studio recentemente pubblicato sul Journal of Clinical Oncology hanno provato a ricostruire le curve di Kaplan Meier, non presentate nelle pubblicazioni originali, dei sottogruppi definiti sulla base dell’espressione del PDL1 nell’ambito degli studi randomizzati di fase III che hanno valutato l’aggiunta dell’immunoterapia alla chemioterapia nel trattamento di prima linea del tumore gastrico e della giunzione.

Per ricostruire le curve, gli autori hanno applicato un algoritmo di ricostruzione grafica, partendo dalle curve presentate per la popolazione globale e per gli altri sottogruppi complementari (vale a dire hanno analizzato le curve della popolazione globale e dei casi con elevata espressione di PDL1, per stimare con l’algoritmo di ricostruzione le curve dei casi con bassa espressione.

Questo algoritmo, denominato “KMSubtraction”, è stato applicato sia alle curve di sopravvivenza globale (OS, overall survival) sia alle curve di sopravvivenza libera da progressione (PFS, progression-free survival).

Sono stati inclusi nell’analisi 3 studi:

  • CheckMate-649 (aggiunta di nivolumab alla chemioterapia),
  • KEYNOTE-062 (aggiunta di pembrolizumab alla chemioterapia, oppure pembrolizumab da solo),
  • KEYNOTE-590 (aggiunta di pembrolizumab alla chemioterapia).

Dall’analisi delle pubblicazioni, sono stati identificati 2 sottogruppi per i quali il dato non era presentato nei lavori: i casi con espressione di PD-L1 CPS 1-4 nello studio CheckMate-649 e i casi con espressione di PD-L1 CPS 1-9 nello studio KEYNOTE-062.

La ricostruzione delle curve nei suddetti sottogruppi non ha evidenziato differenze significative con l’aggiunta dell’immunoterapia alla chemioterapia, né in OS né in PFS.

  • Nello studio CheckMate-649 PD-L1 CPS 1-4, nessuna differenza significativa in sopravvivenza globale (hazard ratio 0.950, intervallo di confidenza al 95% 0.747 - 1.209, p= 0.678) né in PFS (hazard ratio 0.958, 95% CI 0.743 - 1.236, p = 0.743).
  • Nello studio KEYNOTE-062, nei casi con PD-L1 CPS 1-9, nessuna differenza significativa in sopravvivenza globale né per pembrolizumab da solo (Hazard Ratio 1.027, 95% CI 0.811 - 1.300, p=0.827) né per l’aggiunta di pembrolizumab alla chemioterapia (Hazard Ratio 0.836, 95% CI 0.658 - 1.061, p=0.141).
  • Per quanto riguarda la PFS, nessuna differenza significativa per l’aggiunta del pembrolizumab alla chemioterapia (Hazard Ratio 0.924, 95% CI 0.730 - 1.169, p=0.510) e una PFS peggiore per I pazienti trattati con pembrolizumab da solo (Hazard Ratio 2.092, intervallo di confidenza al 95% 1.661 - 2.635, p < 0.001).

Gli autori, sulla base dei risultati sopra descritti, sottolineano che l’impiego della tecnica di analisi statistica “KMSubtraction” ha consentito di ottenere il dato relativo all’efficacia dei trattamenti in studio in alcuni sottogruppi nonostante tale dato non fosse incluso nelle pubblicazioni originali.

E’ interessante sottolineare che i risultati non evidenziano alcuna efficacia significativa del trattamento con immunoterapia nei sottogruppi di casi con bassa espressione di PDL1. Questo risultato rende “esplicito” quello che spesso capita di “dedurre” dalle pubblicazioni originali, quando si nota che il vantaggio a favore del braccio sperimentale con immunoterapia nella popolazione complessiva è significativo, ma più “diluito” rispetto al risultato osservato nella popolazione di pazienti selezionati per elevata espressione di PDL1.

Naturalmente, il lavoro presenta 2 importanti limitazioni.

La prima è legata alla tecnica impiegata per le analisi. Quelle che osserviamo non sono le curve costruite sui dati individuali dei pazienti, ma sono le curve “calcolate” (naturalmente in maniera accurata) grazie all’analisi delle curve presentate nei lavori, vale a dire la popolazione complessiva e il sottogruppo “complementare” a quello di interesse.

La seconda limitazione, che vale per questo studio al pari di tutte le altre analisi di sottogruppo, è che questa analisi è a rischio di risultato falso negativo, in quanto in nessuno degli studi la numerosità dei casi con bassa espressione di PDL1 era tale da garantire potenza adeguata per poter escludere l’efficacia del trattamento in caso di risultato non significativo.

D’altra parte, le analisi di sottogruppo andrebbero sempre interpretate anche alla luce della plausibilità (che in questo caso è coerente con un’associazione biologica tra intensità dell’espressione di PDL1 ed efficacia dell’immunoterapia) e consistenza (e da questo punto di vista il fatto che il dato sia simile in studi diversi è un punto a favore dell’ipotesi di una interazione significativa tra PDL1 ed efficacia dell’immunoterapia).

E’ stato detto tante volte in questi anni, i fenomeni biologici non sono “tutto / niente” o “bianco / nero” ma più spesso una scala di grigi. Vale per le mutazioni attivanti, vale enormemente di più per l’espressione del PDL1. Questo implica che, ovviamente, non esiste un cut-off perfetto al di sopra del quale il trattamento funziona e al di sotto del quale il trattamento non funziona. Detto questo, una migliore selezione dei pazienti, identificando ad esempio quelli che hanno una chance molto bassa di beneficio dal trattamento, gioverebbe alle decisioni cliniche e alla sostenibilità del sistema.

Per quanto riguarda la raffinata metodologia statistica impiegata dagli autori Il mio commento ingenuo, pur apprezzando il lavoro, è che questo tipo di dati dovrebbe essere richiesto al momento della sottomissione dei lavori originali. Quante volte in questi anni, leggendo questo tipo di lavori, ci siamo detti che sarebbe stato utile vedere il dato del sottogruppo. Anche se non pre-pianificata, l’analisi nel sottogruppo potrebbe essere eseguita, su richiesta dei revisori o dell’editor, quando l’articolo è pubblicato. Non mi meraviglia che una rivista come JCO sia interessata a un articolo come questo, perché fa luce su un quesito clinicamente molto interessante, piuttosto mi dispiace non trovare il dato nelle pubblicazioni originali.