Miscellanea
Martedì, 16 Maggio 2023

Cosa c'è in una parola? Non conta solo cosa diciamo ma, soprattutto, come lo diciamo

A cura di Fabio Puglisi

Il linguaggio è un veicolo per condividere conoscenza, un mezzo attraverso il quale possiamo esprimere i nostri valori e comunicare con gli altri. In un contesto medico, il linguaggio non si limita a trasferire informazioni tra pazienti e operatori sanitari ma ha il potenziale di modellare le relazioni terapeutiche. La scelta delle parole può influenzare il modo in cui i pazienti intendono salute e malattia, nonché la percezione che gli operatori sanitari hanno dei pazienti, con potenziali implicazioni terapeutiche. 
Il linguaggio nelle narrazioni mediche plasma anche il modo in cui giovani medici e infermieri pensano, parlano e agiscono, perpetuando eventuali pregiudizi radicati.
 
Cox C, Fritz Z. Presenting complaint: use of language that disempowers patients. BMJ 2022;377:e066720.

In UK, la guida del National Institute for Health and Care Excellence (NICE) sul processo decisionale condiviso si concentra sull'importanza di comunicare i rischi, i benefici e le conseguenze degli interventi ai pazienti. Tuttavia, alcuni linguaggi utilizzati per comunicare direttamente con i pazienti, o quando si discute fra operatori sanitari, potrebbe involontariamente rivelarsi deleterio per i pazienti. Sebbene il gergo dispregiativo utilizzato storicamente sia ora quasi universalmente bandito, il linguaggio che sminuisce, dubita o incolpa continua ad essere usato nella pratica clinica quotidiana, sia oralmente che nei referti scritti. 
 
Attingendo alla ricerca esistente, gli autori descrivono come il linguaggio, sebbene spesso dato per scontato, possa influenzare insidiosamente la relazione terapeutica e suggeriscono proposte di modifica atte a favorire una relazione incentrata sulla comprensione condivisa e sugli obiettivi collettivi. È difficile stabilire un elenco completo di tutti i linguaggi potenzialmente dannosi. Sono riportati esempi vissuti dagli autori stessi o dai loro pazienti, insieme ad esperienze descritte in letteratura, riconoscendo di non essere esaustivi considerato il possibile uso di molte altre espressioni, anche in lingue diverse dall'inglese, che meriterebbero di essere riviste ed evitate.

Linguaggio che sminuisce i pazienti
Alcuni linguaggi usati nella pratica clinica mettono implicitamente in dubbio le esperienze dei pazienti o esprimono un certo grado di insofferenza. Una di queste espressioni – lamentare (ndr nell’accezione di riportare/riferire) assume connotazioni negative. Sarebbe più neutrale fare riferimento al motivo per cui un paziente richiede assistenza sanitaria (ad esempio, suona meglio l’espressione “il paziente riferisce dolore o giunge alla nostra osservazione per dolore” rispetto alla differente “il paziente lamenta dolore”). 
Nella documentazione clinica, i medici a volte usano un linguaggio che mette in discussione l'autenticità dei sintomi di un paziente. Ad esempio, spesso traducono l'assenza riferita di sintomi o come “il paziente che nega febbre, brividi o sudorazioni notturne." Negare ha il significato implicito del rifiutare di ammettere la verità o l'esistenza di qualcosa, e il termine può suggerire inaffidabilità. In uno studio che esamina le reazioni alle note ambulatoriali, i pazienti hanno risposto con disappunto in merito al linguaggio che metteva in dubbio la validità delle loro esperienze. Un paziente ha affermato: “Non ho negato questi sintomi. Ho detto che non li sentivo. Completamente differente. Il linguaggio è importante.” Allo stesso modo, scrivere “il paziente afferma che il dolore è 10/10” invece di “il paziente sta provando un dolore 10/10” implica un certo grado di incredulità. 
Naturalmente, a volte è opportuno che un medico eserciti un certo scetticismo sul racconto di un paziente (ad esempio, quando un paziente afferma di non aver assunto sostanze illecite ma uno screening tossicologico delle urine dà risultati positivi). Ma i termini nega e afferma sono ampiamente usati in situazioni in cui non esiste una base ragionevole per tale dubbio, probabilmente per abitudine impropria piuttosto che per incredulità. Al contrario, le osservazioni del medico sono usualmente legittimate e generalmente descritte come "si nota", "si osserva" o "si rileva".
 
Linguaggio che descrive il paziente come passivo o infantile
Gran parte del linguaggio utilizzato in medicina clinica rende inappropriatamente il paziente l'oggetto dell'azione del medico, conferendo passività al paziente mentre sottolinea la posizione di potere del medico.
Ciò è particolarmente evidente nelle narrazioni che riguardano alcune condizioni come il diabete. C'è dell'autoritarismo, ad esempio, nel parlare di pazienti a cui (non) "sono consentiti" certi cibi dai loro medici. In alcuni pazienti, si genera il ricorso a una narrazione infantile, descrivendo l'effetto "cattivo" o "buono" sui loro livelli di zucchero nel sangue, o raccontando di essere stati "sgridati" dagli operatori sanitari.
Anche i termini “compliance” e “non compliance” (in relazione all'assunzione di farmaci) sono autoritari, a indicare che i pazienti devono obbedire alle raccomandazioni del medico. Alcuni pazienti hanno riportato: “Essere descritti come 'non conformi' è orribile e non riflette il fatto che ci si stia impegnando per fare del proprio meglio”. La concordanza e l'adesione sono state suggerite come alternative alla compliance, con l’intento di riconcettualizzare la relazione medico-paziente come una partnership, e le decisioni terapeutiche come il risultato di una collaborazione verso un obiettivo condiviso.
 
Linguaggio che accusa i pazienti
Un'altra categoria problematica di linguaggio è quella che attribuisce implicitamente la colpa ai pazienti per gli scarsi risultati. Ciò è stato esplorato anche nel contesto del diabete, dove il linguaggio comunemente usato è spesso moralistico, attribuendo tacitamente la colpa al paziente per gli scarsi risultati. Il termine "diabete scarsamente controllato" può essere stigmatizzante e far sentire i pazienti giudicati. Sebbene possa essere utile far sentire i pazienti come capaci di esercitare un'influenza positiva sulla loro salute, è importante essere realistici riguardo alla gestione di alcuni effetti della malattia che, per ragioni complesse e di vario tipo, possono essere indipendenti dal comportamento dei pazienti.
Il fallimento del trattamento è un altro esempio di linguaggio che incolpa il paziente. Qui i medici assegnano ai pazienti la responsabilità di qualcosa su cui non hanno alcun controllo: "il paziente ha fallito l'immunoterapia" piuttosto che "l'immunoterapia ha fallito". In oncologia (ndr), i clinici fanno riferimento ad espressioni quali "il paziente non ha risposto alla terapia" o "il paziente ha avuto una scarsa risposta al trattamento". Piuttosto, andrebbero impiegate espressioni come “la terapia ha avuto uno scarso effetto sulla malattia”. In altre parole, bisognerebbe allontanarsi da un linguaggio che implica (per quanto sottilmente) che il paziente è personalmente responsabile di un esito sfavorevole.
 
Cosa c'è in una parola?
Un linguaggio che sminuisce, rende puerili o incolpa i pazienti va contro le relazioni collaborative che si cerca di promuovere attraverso il processo decisionale condiviso. I modelli di linguaggio che connotano l'obiettività e la credibilità dei risultati dei medici, mentre mettono in discussione l'affidabilità delle esperienze dei pazienti, sono indicativi di mancanza di rispetto per i pazienti.
Uno studio che ha confrontato il linguaggio neutro con il linguaggio che implica la responsabilità del paziente (non tollerare la maschera di ossigeno vs rifiutare la maschera di ossigeno), ha mostrato che il termine non neutro era associato ad atteggiamenti negativi nei confronti del paziente e a una minore prescrizione di farmaci analgesici. Esistono anche prove che parole specifiche utilizzate dai medici possono influenzare i sentimenti dei pazienti nei confronti dei loro medici, con implicazioni in termini di relazione terapeutica. Ad esempio, i partecipanti a uno studio hanno valutato indesiderabili e colpevolizzanti termini come "obeso", con il 19% che ha riferito che eviterebbe futuri appuntamenti se si sentisse stigmatizzato per il proprio peso dal proprio medico.
Inoltre, i termini che denigrano o conferiscono passività ai pazienti lasciano poco spazio per considerare le ragioni delle azioni di un paziente. Il linguaggio dovrebbe essere riformulato per trasmettere esplicitamente la situazione individuale di un paziente: ad esempio, si potrebbe scrivere "le barriere all'aderenza includono il costo e la politerapia nel contesto della recente perdita del lavoro" invece di semplicemente "il paziente non è aderente".  Usare il linguaggio giusto “non è una questione di political correctness; piuttosto è il nucleo delle nostre interazioni.”
Riflettere e aggiornare le parole che usiamo potrebbe essere considerato parte di una strategia più ampia per favorire la relazione collaborativa medico-paziente.

È importante riflettere sulle parole e sulle frasi utilizzate nella pratica clinica, analizzando l’effetto ostativo o facilitatore dell’obiettivo di stabilire una relazione terapeutica autenticamente collaborativa.
 
Alcuni linguaggi comunemente usati nell'assistenza sanitaria descrivono i pazienti come insofferenti, li fanno sentire passivi/infantili o li incolpano di risultati terapeutici subottimali.
Tale linguaggio influisce negativamente sulle relazioni paziente-operatore sanitario ed è da considerarsi obsoleto.
 
Alcune proposte per modificare le distorsioni del linguaggio

Termine associato a percezione negativa (modifica consigliata)

  • Il paziente nega il dolore toracico (il paziente non riporta/accusa dolore toracico)
  • Il paziente lamenta dolore x/10 (Il paziente riferisce che il dolore è x/10)
  • Esprimersi in termini di compliance del paziente (riferire oggettivamente gli ostacoli all'aderenza)
  • Il paziente lamenta un problema, ad esempio dolore (Il paziente giunge alla nostra osservazione per dolore)
  • Il paziente ha fallito il trattamento (il trattamento non è stato efficace)
  • Il paziente ha rifiutato il trattamento (Il paziente non ha effettuato il trattamento)