Miscellanea
Giovedì, 29 Giugno 2017

Curarsi lontano da casa conviene?

A cura di Giuseppe Aprile

Un paradosso geografico, quello riportato in un recente lavoro britannico. Sebbene possa avere una diagnosi più precoce, un più rapido inizio del trattamento e alcune facilitazioni logistiche, chi abita distante da un centro oncologico avrebbe una prognosi meno favorevole.

Turner M, et al. A cancer geography paradox? Poorer cancer outcomes with longer travelling times to healthcare facilities despite prompter diagnosis and treatment: a data-linkage study. Br J Cancer 2017, epub 22 June.

Focus di questa interessante analisi osservazionale retrospettiva è indagare riguardo al ruolo della distanza tra il domicilio del paziente e il centro oncologico di riferimento come potenziale fattore prognostico.

Noto da tempo che la domiciliazione rurale o geograficamente sfavorevole (isole, ad esempio) possa essere relato a un ritardo diagnostico e/o a un inizio tardivo del percorso di cura (che determinerebbe il conseguente svantaggio prognostico), alcuni stati Europei hanno avviato una campagna di sensibilizzazione, proprio nelle aree svantaggiate e messo in essere sistemi per favorire la presa in carico di questi pazienti. Tuttavia non è noto quale sia l'effetto della distanza di per sè dal centro medico sull'esito delle cure.

L'analisi britannica ha previsto estrazione di dati di oltre 12.000 pazienti, con multipli controlli che rassicurano sull'accuratezza e con l'incrocio di informazioni (tramite data-linkeage) tra il sistema di localizzazione geografico inglese, lo Scottish Cancer Registry e il sistema sanitario britannico, creando un dataset longitudinale di pazienti con neoplasia residenti nell'area definita trattati nel 70% dei casi entro 2 mesi dalla prima valutazione. Erano analizzate le distanze di viaggio da casa al medico di medicina generale prima e al centro oncologico di riferimento poi, separandole in categorie temporali predefinite (meno di 5 minuti, da 5 a 10, da 10 a 15, tra 15 e 30, tra 30 e 60, oltre 60 minuti), misurando poi il tasso di mortalità a 1 anno.

 

La coorte di pazienti analizzati era di 12.339 casi; erano rappresentate tutte le neoplasie ma le diagnosi più frequenti erano la neoplasia mammaria (30%), quella colorettale (22.5%), quella prostatica (16%) o quella polmonare (14%). Il 10% dei pazienti esordiva con uno stadio avanzato di malattia.

Il 65% circa abitava in regioni urbane ad alta densità di poolazione, il 35%, invece,in regioni rurali.

I risultati dello studio sono stati corretti per i possibili fattori confondenti.

Nel confronto con i pazienti domiciliati nelle vicinanze di un centro oncologico (viaggio della durata non superiore a 15 minuti), i pazienti con una distanza di viaggio superiore ai 60 minuti (OR 1.42, 95%CI 1.25-1.61) o gli abitanti di un'isola (OR 1.32, 95%CI 1.09-1.59) avevano maggiore probabilità di iniziare il trattamento entro un mese dalla diagnosi.

Nonostante questo dato, la maggiore durata del viaggio era correlata ad un incremento di rischio di morte a un anno di circa il 20%: HR 1.21 con 95%CI 1.05-1.41 per viaggio tra i 30 e i 60 minuti; HR 1.18 con 95%CI 1.03-1.36 per viaggio superiore a un'ora; HR 1.17 con 95%CI 0.97-1.41 per gli isolani.

Lo studio, sebbene innovativo nell'idea e ben condotto dal punto di vista metodologico, certamente ha dei limiti: tra i fattori confondenti, ad esempio, non sono stati presi in considerazione la dieta é il peso/BMI dei pazienti; non sono stati analizzati i trattamenti sperimentali o le metodiche innovative (spesso disponibili solo in centri di maggiore volume) e nemmeno analizzato il numero di spostamenti nel tempo.

Tuttavia il messaggio è chiaro: il lungo viaggio verso il centro oncologico di riferimento non sempre è conveniente. Se il dato fosse replicato da altre esperienze internazionali potrebbe creare la leva per pensare a una possibile riorganizzazione logistica del sistema.