Miscellanea
Sabato, 01 Agosto 2020

Il consenso informato: il momento più delicato della partecipazione a uno studio clinico.

A cura di Massimo Di Maio

Per un paziente oncologico, il consenso informato rappresenta il momento più delicato della partecipazione a una sperimentazione clinica: una survey irlandese offre spunti interessanti sulle difficoltà di comprensione da parte dei pazienti, nonché sui possibili motivi di rifiuto del consenso.

Kearns C, Feighery R, Mc Caffrey J, et al. Understanding and Attitudes toward Cancer Clinical Trials among Patients with a Cancer Diagnosis: National Study through Cancer Trials Ireland. Cancers (Basel). 2020;12(7):E1921. Published 2020 Jul 16. doi:10.3390/cancers12071921

L’oncologia è notoriamente la disciplina caratterizzata dalla maggiore prevalenza di sperimentazioni cliniche, per ovvi motivi legati alla necessità di migliorare l’outcome garantito dai trattamenti attualmente disponibili nella pratica clinica.

E’ quindi esperienza abbastanza frequente, per un paziente oncologico, ricevere la proposta di partecipazione ad una sperimentazione clinica, naturalmente in funzione delle proprie caratteristiche di malattia e, a parità di queste ultime, in funzione della disponibilità presso il centro di uno studio clinico per il quale quel paziente risulti potenzialmente valutabile.

L’informazione che precede la partecipazione è sempre un momento molto delicato: il paziente deve naturalmente essere messo in condizione di decidere in maniera libera, informata e consapevole relativamente alla partecipazione allo studio. Da una parte un consenso troppo dettagliato rischia di fornire al paziente una serie di informazioni tecniche difficili da comprendere e da acquisire, dall’altra un consenso troppo “frettoloso” e paternalistico rischia di non informare l’interessato su alcuni aspetti importanti.

E’ ragionevole il sospetto che molti pazienti, accettando di partecipare ad uno studio, non abbiano realmente capito molti degli aspetti metodologici della sperimentazione, e accettino semplicemente per fiducia nei confronti del medico che glielo propone. Un rischio concreto è che il paziente possa sopravvalutare il beneficio atteso dalla partecipazione alla sperimentazione, con l’incertezza inevitabilmente legata al fatto che l’efficacia di un trattamento sperimentale è, per definizione, non ancora dimostrata in maniera definitiva.

Quanto capiscono i pazienti a cui viene proposta la partecipazione ad una sperimentazione clinica? Alcuni concetti “ostici”, come la randomizzazione, sono realmente chiari a tutti quelli che accettano di partecipare?

Gli autori dell’articolo pubblicato da Cancers hanno condotto una survey a cui hanno partecipato pazienti seguiti presso 14 centri oncologici irlandesi.

Obiettivo dell’analisi era quello di valutare la comprensione di alcuni concetti essenziali legati alla conduzione delle sperimentazioni cliniche, e provare ad analizzare i fattori che influenzano la partecipazione agli studi clinici.

La survey ha incluso 1089 pazienti adulti, con un’età mediana di 60 anni (range interquartile compreso tra 50 e 69 anni). Il 64% dei pazienti partecipanti erano donne, per il 71% sposati o comunque in una relazione stabile, mentre il 16% dei pazienti viveva da solo. Più della metà dei rispondenti (58%) aveva un’istruzione limitata alle scuole secondarie o inferiori, il 30% lavorava e il 60% viveva in un contesto urbano.

Due terzi (66%) dei pazienti non avevano mai ricevuto proposta di partecipazione a una sperimentazione clinica. Solo il 5% di quelli a cui non era stata mai proposta la partecipazione avevano chiesto notizie sulla possibilità di poter partecipare ad uno studio.

L’analisi delle risposte ha messo in luce una scarsa comprensione del concetto di “equipoise”, vale a dire di incertezza sull’efficacia del trattamento sperimentale.

Sono state anche evidenziate problematiche nella comprensione del concetto di randomizzazione: tali difficoltà di comprensione sono risultate significativamente associate all’età, risultando maggiori le difficoltà di comprensione nei soggetti anziani (p < 0.0001) e allo stato civile, risultando maggiori nei soggetti che vivono soli o vedovi (p = 0.013). In sintesi, i pazienti anziani, vedovi, residenti in piccole realtà di provincia rispetto alle grandi città, e con minore istruzione sono più a rischio di minore comprensione dei dettagli metodologici delle sperimentazioni cliniche.

Le risposte hanno messo in luce che una notevole percentuale di pazienti (il 58% del totale, ed il 61% del sottogruppo di pazienti che precedentemente avevano partecipato a sperimentazioni cliniche) è convinto che il medico garantisca un trattamento migliore nel contesto di una sperimentazione clinica.

Nei pazienti maschi è stata registrata una maggiore volontà di aderire a studi con farmaci nuovi. 

In generale, le motivazioni percentualmente più comuni per aderire a una sperimentazione sono state:

  • L’opportunità di contribuire alla ricerca contro i tumori (78%);
  • la possibilità di sentirsi meglio e vivere più a lungo (78%);
  • la fiducia nella raccomandazione da parte dell’oncologo (73%). 

Al contrario, la paura dell’ignoto e la percezione di un aumentato rischio di effetti collaterali possono rappresentare una barriera alla partecipazione. Nel dettaglio, le motivazioni percentualmente più comuni relative alla perplessità a dare il consenso alla partecipazione sono state:

  • La paura di effetti collaterali (35%);
  • La paura della morte (31%);
  • La paura di essere trattato come una cavia (22%).

L’indagine degli autori irlandesi, pur essendo condotta in un contesto culturale e sociale molto diverso da quello italiano, offre molti interessanti spunti di riflessione.

Molto spesso si sottolinea che in oncologia poter offrire la partecipazione a una sperimentazione clinica rappresenta in tante situazioni la miglior opzione terapeutica. Questo è mediamente vero, in quanto gli studi clinici rappresentano l’opportunità di ricevere strategie terapeutiche innovative e promettenti. Bisogna però stare attenti, quando si propone al paziente la partecipazione allo studio, a sottolineare che un trattamento sperimentale è per definizione di efficacia non ancora dimostrata in maniera definitiva, altrimenti si corre il rischio che il paziente sovrastimi le chance di beneficio associate alla partecipazione.

E’ noto quanto la randomizzazione rappresenti un concetto difficile non solo sul piano metodologico, ma su quello emozionale ed etico. Agli sperimentatori è chiaro che randomizzare vuol dire creare gruppi confrontabili e quindi porsi nelle condizioni migliori per valutare l’efficacia di un trattamento, ma non c’è dubbio che il concetto spesso non venga ben compreso dai pazienti, e i dati della survey irlandese lo dimostrano. Peraltro, sul piano pratico, enfatizzare molto, in fase di proposta dello studio, i vantaggi potenzialmente associati al trattamento sperimentale, comporterà una grande delusione per i pazienti assegnati poi al braccio di controllo. E’ bene quindi sempre sottolineare che, se da una parte i soggetti assegnati al braccio sperimentale avranno la chance di ricevere un trattamento promettente ma di efficacia non ancora provata, i pazienti assegnati al braccio di controllo riceveranno il miglior trattamento disponibile per la loro condizione.

Una parte di pazienti vivrà sempre la proposta di partecipare a uno studio clinico come un inaccettabile rischio di fare da “cavia”. E’ naturale che questa sensazione sia particolarmente frequente quando la sperimentazione è di fase iniziale, e quindi minori sono le evidenze già disponibili in termini di sicurezza e di attività del trattamento sperimentale. E’ anche vero che un colloquio sereno e paziente, da parte degli sperimentatori, può aiutare a risolvere almeno alcune delle paure.

La riflessione più importante, leggendo i risultati della survey irlandese, è che il consenso informato, lungi dall’essere una semplice procedura amministrativa e “burocratica”, è il momento più importante della sperimentazione: al di là del linguaggio del testo scritto (a volte troppo lungo e noioso, con il rischio di disperdere le informazioni veramente utili in un mare di altre informazioni che riducono l’attenzione del lettore), la comunicazione andrà indubbiamente “personalizzata” mediante il colloquio, per garantire al maggior numero possibile di soggetti un’adeguata comprensione dello studio che viene loro proposto.