Miscellanea
Giovedì, 23 Novembre 2017

Tumori cerebrali: le opzioni rimangono poche

A cura di Giuseppe Aprile

Una malattia di natura aggressiva, con limitate possibilità di trattamento al momento della progressione. Il trial EORTC 26101, un importante studio randomizzato, testa il ruolo del bevacizumab in associazione alla chemioterapia.

Wick W, et al. Lomustine and Bevacizumab in Progressive Glioblastoma. N Engl J Med. 2017 Nov 16;377(20):1954-1963

La strategia terapeutica offerta a pazienti con glioblastoma, il più aggressivo tumore cerebrale primitivo, integra differenti opzioni che possono includere la chirurgia (qualora sia fattibile), un trattamento di combinazione con radioterapia e temozolomide ovvero la sola chemioterapia anche usata in setting di mantenimento. I risultati in termini di outcome, tuttavia, sono deludenti: la mediana di sopravvivenza è inferiore ai 18 mesi e la probabilità di sopravvivenza a 5 anni estremamente bassa.

Negli ultimi anni, l'evoluzione nel trattamento non è stata di certo entusiasmante; i dati poco convincenti dell'utilizzo di temozolomide dose-dense e il fallimento di EGFR-inibitori (nimotumumab) e della cilengitide.
Sulla scorta di dati non controllati e studi di fase II è stato approvato l'uso di bevacizumab in pazienti con malattia in progressione; nel frattempo la pubblicazione dello studio italiano AVAREG suggeriva una possibile inferiore attività dell'antiangiogenico rispetto alla fotemustina (seppur con il caveat di non prevedere un confronto diretto)

Lo studio internazionale EORTC 26101 mira a valutare il beneficio della aggiunta di bevacizumab al trattamento con lomustina in pazienti con glioblastoma in progressione dopo trattamento di chemioradioterapia. Il disegno prevedeva una random 2:1 tra lomustina (110 mg mq ogni 6 settimane con capping a 200 mg totali) ovvero lomustina (90 mg/mq ogni 6 settimane con capping 160 mg totali) e bevacizumab (10 mg/Kg ogni 14 gg) con primary endpoint la sopravvivenza overall.

Lo studio ha complessivamente randomizzato 437 pazienti (288 al braccio sperimentale e 149 a quello di controllo), con conferma istologica di glioblastoma, età mediana di poco inferiore ai 60 anni, ECOG PS prevalente 1 (55% circa), metilazione nota di MGMT in circa un quarto della popolazione. I dati sono stati presentati dopo un numero di eventi morte pari a 329 (75% circa).

Il trattamento di combinazione è risultato superiore alla sola chemioterapia in PFS - endpoint secondario, giudicata localmente - con un vantaggio di circa 3 mesi (4.2 mesi vs 1.5 mesi, HR 0.49, 95%CI 0.39-0.61), ma non in termini di sopravvivenza overall (9.1 mesi vs 8.6 mesi, HR 0.95, 95%CI 0.74-1.21) sebbene l'aggiunta di bevacizumab non impattasse (negativamente ma nemmeno positivamente) sulla funzione neurocognitiva né sulla qualità di vita.

 

Lo studio è sostanzialmente negativo: sebbene il trattamento con l'antiangiogenico prolunghi la sopravvivenza libera da progressione, tale vantaggio poi non si traduce in un beneficio nell'outcome dell'endpoint primario e la combinazione di bevacizumab e chemioterapia non risulta essere più efficace della sola chemioterapia in pazienti con glioblastoma in progressione dopo chemioRT.

La metilazione di MGMT si conferma avere valenza prognostica, ma non ha valore predittivo per il beneficio dal trattamento previsto nel braccio sperimentale dello studio.

Lo stesso primo autore, in un altro articolo simultaneamente pubblicato su un'altra prestigiosa rivista (Wick W, et al. Drug repositioning meets precision in glioblastoma. Clin Cancer Res 2017), continua a definire il glioblastoma come un "gigantic unmet medical need" nel quale la comprensione biologica e molecolare della malattia deve essere meglio sfruttata per arrivare a cure con potenziali risvolti nella clinica.