Miscellanea
Venerdì, 26 Gennaio 2018

Shock settico: vanno usati i glucocorticoidi?

A cura di Giuseppe Aprile

Lo shock settico è una complicazione infrequente nei pazienti oncologici, ma potenzialmente fatale. Gli autori si interrogano riguardo sulla reale efficacia dei glucocorticoidi, spesso usati nella pratica clinica, nel ridurne la mortalità.

Venkatesh B, et al. Adjunctive Glucocorticoid Therapy in Patients with Septic Shock. N Engl J Med. 2018 Jan 19.

Nei pazienti con neoplasia solida in trattamento antiblastico, la neutropenia severa può complicarsi con una sepsi ed esitare in shock settico, una tossicità la cui gestione rimane critica. Sebbene questa condizione rimanga una priorità clinica, non esiste una terapia realmente efficace per lo shock settico, che usualmente è trattato con antibioticoterapia a largo spettro, supplementazione di fluidi endovenosi e sostegno del circolo, ma che conserva un tasso di mortalità del 40-50%.

Nel corso degli anni si è discusso a lungo riguardo all'efficacia della terapia cortisonica (endovenosa) sui principali endpoint misurabili inn questa situazione, come ad esempio la mortalità legata all'evento, il tempo a risulozione della fase critica, i giorni di ricovero in terapia intensiva. Tuttavia i dati a supporto dell'utilizzo dei cortisonici sono sempre risultati poco convincenti e talvolta contraddittori.

Gli autori (Australiani e Neo-Zelandesi) hanno condotto un importante sudio di fase III randomizzata nel quale quasi 4.000 pazienti con diagnosi confermata di shock settico erano randomizzati a ricevere o meno terapia di supporto che includesse anche idrocortisone alla dose di 200 mg/die (vs placebo) per 7 giorni consecutivi o fino alla dimissione dalla terapia intensiva o al decesso, se avvenuto prima dei 7 gg. Endpoint primario dello studio era la mortalità per ogni causa censita a 90 giorni.

Nel corso di 4 anni (dalla primavera 2013 alla primavera 2017) sono stati inclusi nella sperimentazione 3658 pazienti, 1832 randomizzati al braccio con terapia idrocortisonica e gli altri al placebo. Età mediana dei pazienti arruolati era 62 anni in entrambi i barcci, e il 70% circa dei pazienti proveniva da un ricovero in ambiente medico.

Lo score APACHE 2 era 24 nel braccio che riceveva idrocortisone e 23 in quello che riceveva placebo.

Nei due bracci di trattamento non vi erano differenze significative tra gli altri trattamenti di supporto ricevuti per il trattamento dello shock settico: ventilazione meccanica 99.8% vs 99.9%, inotropi o vasopressori 99.5% vs 99.7%, terapia antimicrobica a largo spettro 98.3% vs 98.1%, sostegno della funzione renale 12.3% vs 13%. In entrambi i bracci il sito primario dell'infezione era polmonare (24% vs 36%), addominale (26% vs 25%) o ematico (17% in entrambi i bracci).

sebbene i pazienti arruolati al braccio con idrocortisone avessero un una più rapida riosoluzione dello shock (3 vs 4 gg, HR 1.32, 95%CI 1.23-1.41, p<0.005) e una minor probabilità di ricevere trasfusione di globuli rossi concentrati (37% vs 42%, OR 0.82, 95%CI 0.72-0-94, p<0.001), l uso della terapia cortisonica non ha impattato significativamente sull'outcome primario.

Infatti, non si è registrata una differenza di mortalità a 90 giorni (mortalità del 28% nel braccio sperimentale vs 29% in quello standard, OR 0.95, 95%CI 0.82-1.10, p=0.50) e nemmeno a 28 giorni dalla randomizzazione.

 

Nonostante non sia specificatamente condotto in pazienti oncologici, ricaviamo dal lavoro scientifico un'informazione utile. Il trial di fase III - pragmatico, molto ben condotto e con una solida validità interna e esterna - dimostra che non vi è beneficio nell'uso dell'idrocortisone ev (utilizzato nello studio in infusione continua) in pazienti con shock settico.

Precedenti esperienze dimostravano l'inefficacia anche del fludrocortisone nella stessa situazione clinica. Una terapia efficace e mirata dovrà essere basata su informazioni più accurate fondate su analisi biomolecolari del fenomeno.