Miscellanea
Lunedì, 04 Aprile 2022

Misinformazione e disinformazione medica sui social media

A cura di Fabio Puglisi

Sebbene la misinformazione sia cresciuta in corso di pandemia Covid-19, la diffusione di affermazioni mediche ingannevoli è vecchia quanto la stessa professione sanitaria. 

La facilità con la quale misinformazione (informazione fuorviante, imprecisa o completamente falsa che viene diffusa senza l'esplicita intenzione di ingannare) e disinformazione (informazione imprecisa o falsa volutamente fuorviante) si propagano attraverso i social media, invece, presenta sfide nuove e complesse. Una survey recentemente condotta negli Stati Uniti ha riportato che il 95% degli intervistati percepisce la misinformazione come un problema e che il 41% è estremamente preoccupato di essere esposto in prima persona alla misinformazione. 

Per cercare di contrastare tale fenomeno considerato una minaccia per la salute pubblica, sono stati messi in atto progetti organizzativi finalizzati a formare lo staff sanitario per contrastare la misinformazione. Si invitano i professionisti a utilizzare proattivamente sia le piattaforme più tecnologiche (i social media) sia quelle più tradizionali (giornali, televisione).  

Tuttavia, i clinici che utilizzano i social media per rispondere alla misinformazione incontrano diversi ostacoli:

  • L’assenza di responsabilità e quindi di sanzioni per gli utenti (inclusi gli operatori sanitari) che diffondono deliberatamente disinformazione e per le aziende che gestiscono le piattaforme social;
  • Le minacce e i frequenti attacchi online rivolti ai medici che tentano di correggere le informazioni;
  • L’insufficiente formazione dei medici riguardo a strategie per affrontare la mis- e la disinformazione. Il superamento di queste barriere è fondamentale per coinvolgere i clinici nella risposta alla cattiva informazione online e, più in generale, per aumentare la fiducia nella professione medica.

Attaccare la disinformazione alla fonte è essenziale. I clinici hanno suggerito che le società gestrici di social media rispondano direttamente riguardo alla diffusione della disinformazione medica sulle loro piattaforme. Il Center for Countering Digital Hate (Centro per contrastare l'odio digitale) ha individuato quella che chiama la “disinformazione dozzina”. Si tratta di dodici account (gestiti da utenti individuali e da una coppia) responsabili della maggior parte (65%) della disinformazione antivaccino circolante su su Facebook e Twitter. A partire da dicembre 2020, i 425 profili social antivaccino più seguiti si stima avessero un bacino di utenza di oltre 59 milioni.

Alcuni di questi account sono "verificati”, il che fornisce loro un marchio di credibilità, nonostante le false informazioni che diffondono. Ad oggi, al di là delle intenzioni, poco è stato fatto contro la “disinformazione dozzina”. Eppure, dovrebbe essere scontato far perdere lo stato di profilo “verificato” e, idealmente, i responsabili dovrebbero essere sanzionati con la perdita dei privilegi dell'account. 

Alcuni utenti che perseverano nella diffusione dell’informazione distorta sono medici che fanno perdere la fiducia nella professione medica. Gli ordini dei medici e degli infermieri stanno pianificando la messa in atto di azioni dirette verso chi genera o diffonde disinformazione, non escludendo la possibilità di sospensione dall'esercizio della professione. 

I professionisti sanitari che vogliono combattere pubblicamente la disinformazione non possono pensare di farlo senza protezione da attacchi e molestie. Una ricerca condotta prima della pandemia Covid-19, ha rivelato che un medico su quattro era stato attaccato sui social. Una dottoressa su sei ha riferito di essere stata molestata sessualmente sui social e il tasso è probabilmente più alto tra le donne che appartengono anche a gruppi etnici o razziali minoritari.

Un sondaggio condotto durante la pandemia ha rilevato che fino a due terzi di medici e scienziati intervistati dai media sul Covid-19 hanno riferito di essere stati attaccati (spesso online, ma in molti casi anche fisicamente) a seguito dei loro post sui social o delle loro apparizioni sui media.

Il 22% degli intervistati ha riferito di aver ricevuto minacce, violenza fisica o sessuale, e il 15% di aver ricevuto minacce di morte.

Quando vengono molestati, i medici e gli scienziati spesso non informano i loro datori di lavoro perché non credono nella messa in atto di azioni successive alla denuncia. Inoltre, chi ha segnalato di essere stato attaccato ha dichiarato di avere meno probabilità di partecipare ad interviste giornalistiche in futuro, a rinforzo dell’evidenza di efficacia degli attacchi.

Servono strategie per aiutare gli operatori sanitari che vengono attaccati e per prevenire gli attacchi. Un approccio è quello di adottare un'identità di gruppo. Ad esempio, all'inizio della pandemia, professionisti sanitari dell'Illinois attivi sui social media hanno messo in atto una azione collaborativa (IMPACT) per creare infografiche finalizzate a sfatare la disinformazione. Quando un membro del gruppo è stato attaccato online, altri membri sono venuti in aiuto della persona lesa. Esperienze simili hanno seguito la linea delle organizzazioni, come la “This Is Our Shot”, realizzata per supportare lo sforzo di vaccinazione anti-Covid-19.

Gruppi come Hollaback!, Shots Heard Round the World, e PEN America offrono formazione per rispondere agli attacchi online, anche prevenendo mosse aggressive come il "doxxing", la pratica di reperire e diffondere pubblicamente online e con intento malevolo informazioni personali e private (come ad es. nome e cognome, indirizzo, numero di telefono ecc.) o altri dati sensibili riguardanti una persona.

Chi usa le piattaforme social per danneggiare o minacciare i medici che contestano la disinformazione dovrebbe essere sanzionato con limitazioni sulla capacità di postare.

La disinformazione medica interferisce con il rapporto medico-paziente e provoca danno. Vi è urgenza di formare gli operatori sanitari nell'uso della comunicazione scientifica per combattere la disinformazione ma le strategie da mettere in atto non sono ancora chiare. 

Incoraggiare i professionisti nell’operazione di dissipare la disinformazione senza fornire la formazione formale potrebbe esacerbare la diffusione della stessa disinformazione, sia online che nelle interazioni cliniche. Ad esempio, si è portati a ritenere giusta la descrizione iniziale di un mito per poi smontare con i fatti la falsità dell’informazione. Eppure, gli studi dimostrano che tale approccio può essere controproducente strutturando la disinformazione, dal momento che i pregiudizi cognitivi tendono a richiamare il primo contenuto presentato. 

Invece, per sfatare la disinformazione, viene suggerito un processo a tre step utilizzato dagli scienziati del clima, che prevede in primis l’affermazione di un fatto, indicando poi il relativo mito, e infine la spiegazione dell’errore o delle motivazioni per cui il mito è da ritenersi falso. Descrivere le basi della disinformazione può aiutare a cambiare il pensiero delle persone. È altrettanto importante considerare quando intervenire sulla disinformazione, cercando di essere tempestivi ed evitando che i luoghi comuni possano diffondersi. Del resto, il "prebunking", cioè fornire una educazione scientifica prima che i miti appaiano, può risultare particolarmente efficace.

Le università e le scuole di medicina dovrebbero investire nell’insegnamento di strategie per comunicare efficacemente l’informazione scientifica.  

Metodi come il SIFT (stop, investigate the source, find trusted coverage, and trace to the original context), sviluppato da bibliotecari, possono essere utilizzati per formare i medici nell’identificazione di fonti di informazione affidabili.  A loro volta gli operatori sanitari possono condividere queste strategie con i loro pazienti in modo empatico.