Miscellanea
Giovedì, 21 Febbraio 2019

Nuovi anticoagulanti: quanta evidenza serve a convincerci?

A cura di Giuseppe Aprile

Sebbene l'utilizzo di eparine a basso peso molecolare dimezzi il rischio di eventi trombotici nei pazienti oncologici in trattamento, il beneficio assoluto è considerato limitato per consigliare nella pratica clinica la profilassi a tutti. Ora abbiamo i nuovi anticoagulanti. E nuove evidenze. Basteranno?

Carrier M, et al. Apixaban to Prevent Venous Thromboembolism in Patients with Cancer. N Engl J Med 2019, Feb 21 epub ahead of print. 

Da diversi anni abbiamo l'evidenza che nei pazienti oncologici il rischio di sindrome tromboembolica è elevato. Forse non per tutti allo stesso modo, ma - al netto dei fattori di rischio individuali o genetici - certamente tale rischio è incrementato notevolmente nei soggetti diagnosticati di particolari neoplasie (polmone, pancreas...) e in chi riceve un trattamento antiblastico.

Due trial clinici randomizzati condotti in doppio cieco nella popolazione oncologica ambulatoriale (entrambi a prima firma dell'italianissimo Giancarlo Agnelli) hanno dimostrato che il rischio di tromboembolismo viene ridotto al 50% sei il paziente è avviato a trattamento con eparina a basso peso molecolare, nello specifico degli studi nadroparina e semuloparina. Nonostante questa evidenza - che si riferisce a un beneficio assoluto - il beneficio misurato in termini assoluti è decisamente inferiore e quando confrontato al rischio di sanguinamento e di discomfort per il paziente non ha convinto la comunità oncologica. Le linee guida, infatti, consigliano di considerare la profilassi primaria solo nei pazienti a rischio elevato.

Quindi la domanda si sposta: chi sono i pazienti a rischio elevato?

Sono quelli con particolari neoplasia a più alto potenziale trombofilico, quelli con caratteristiche individuali o genetiche favorenti, quelli che ricevono particolari schemi terapeutici, quelli che hanno un punteggio più alto se classificati con lo score di Khorana, un algoritmo di stima del rischio che include informazioni sul tipo di neoplasia, sul BMI del paziente e sulle caratteristiche emocromocitometriche basali.

Lo studio AVERT è un trial di fase III randomizzato in doppio cieco che arruola pazienti oncologici ambulatoriali con score di Khorana di almeno 2 e in procinto di iniziare chemioterapia sistemica a ricevere apixaban alla dose di 2.5 mg per os due volte al giorno ovvero placebo. I pazienti inclusi, quindi, avevano a priori un rischio stimabile attorno al 10% di sviluppare evento tromboembolico entro sei mesi dalla random.

Endpoint primario di eficacia è l'evidenza di tromboembolismo venoso entro i 180 giorni. Parallelamente, si censisce il principale obiettivo di safety, che corrisponde al numero di pazienti con sanguinamento maggiore. Come prevedibile, erano esclusi dallo studio pazienti con alto rischio di sanguinamento, quelli con filtrato glomerulare inferiore a 30 mL/min, quelli con valore piastrinico basale inferiore a 50.000 e quelli con peso inferiore a 40 Kg.

 

 

 

Sono stati randomizzati 574 pazienti, 563 dei quali inclusi nella analisi ITT finale. 

La maggior parte dei pazienti nclusi aveva neoplasia ginecologica, linfoma, carcinoma del pancreas o neoplasia polmonare; un quinto dei pazienti riceveva anche trattamento con antiinfiammatori.

Un terzo dei pazienti avevano score di Khorana 3 o 4; la grande maggioranza ECOP performance status di 0-1.

Si sono registrati 12 eventi tromboembolici nei 288 soggetti randomizzati al braccio con apixaban (tasso di evento 4.2%) vs 28 eventi tra i 275 pazienti randomizzati a placebo (esattamente il 10.2% stimato a priori), HR 0.41, 95%CI 0.26-0.65, p<0.0001.

Durante il periodo di trattamento il rischio di sanguinamento maggiore con apixaban era sostanzialmente raddoppiato rispetto a quello censito nel braccio con placebo (2.1% pari a 6 pazienti vs 1.1% corrispondente a 3 pazienti, HR 1.89, 95%CI 0.39-9.24).

 

Il messaggio del trial AVERT è chiaro: in questa categoria di malati oncologici (rischio medio-elevato, che ricevono trattamento antiblastico sistemico in setting ambulatoriale), l'utilizzo di apixaban in profilassi riduce del 60% il rischio di evento tromboembolico ma raddoppia quello di sanguinamento maggiore.

Ma il punto in cui la convinzione cede il passo al calcolo spiccio è quando passiamo dal relativo all'assoluto: 574 pazienti randomizzati, 16 eventi tromboembolici risparmiati, 3 sanguinamenti maggiori causati. Calcoliamoci pure il number needed to treat per evento evitato o il number needed to harm con l'uso di apixaban [per chi non avesse voglia di calcolarselo in autonomo, i numeri sono riportati nell'ottimo editoriale di accompagnamento] e vediamo se un'analisi farmacoeconomica sarà abbastanza per convincerci...

Nell'attesa di sapere cosa scriverà il gruppo capitanato da Sandro Barni nelle Linee Guida AIOM 2019 sul tromboembolismo venoso, non ci resta che riflettere sui risultati del'AVERT (che ha testato apixaban vs placebo) e del CASSINI (che ha testato rivaroxaban vs placebo) pubblicati sullo stesso numero del N Engl J Med.