Miscellanea
Sabato, 13 Aprile 2019

Oncologia della speranza o della disperazione?

A cura di Massimo Di Maio

La disponibilità di nuovi farmaci rischia di incoraggiare la prescrizione di trattamenti antitumorali attivi in pazienti dall’aspettativa di vita molto limitata: un’interessante analisi statunitense evidenzia questo trend nella prescrizione di immunoterapia nel carcinoma uroteliale avanzato.

Parikh RB, Galsky MD, Gyawali B, Riaz F, Kaufmann TL, Cohen AB, Adamson BJS, Gross CP, Meropol NJ, Mamtani R. Trends in Checkpoint Inhibitor Therapy for Advanced Urothelial Cell Carcinoma at the End of Life: Insights from Real-World Practice. Oncologist. 2019 Apr 3. pii: theoncologist.2019-0039. doi:10.1634/theoncologist.2019-0039. [Epub ahead of print] PubMed PMID: 30944183.

In anni recenti, al pari di altri tumori solidi, numerosi studi hanno documentato l’attività e l’efficacia dei farmaci immunoterapici di nuova generazione nel trattamento dei pazienti affetti da carcinoma uroteliale avanzato. Sulla base di tali risultati, le autorità regolatorie hanno approvato l’impiego di alcuni di tali farmaci nella pratica clinica.

Come noto, gli immune checkpoint inhibitors sono caratterizzati da un profilo di tossicità universalmente giudicato migliore rispetto alla chemioterapia, e questo può “abbassare la soglia” dell’indicazione, favorendo la prescrizione di tale trattamento anche a pazienti che, per lo scadimento delle condizioni e la limitata aspettativa di vita, sarebbero stati esclusi da un trattamento attivo chemioterapico.

Partendo da tale considerazione, gli autori dell’analisi recentemente pubblicata su The Oncologist hanno valutato l’andamento nel tempo nella tempistica di inizio dei trattamenti antitumorali attivi nei pazienti con carcinoma uroteliale avanzato, vicini alla fine della vita.

A tale scopo, gli autori hanno analizzato i dati relativi a 1637 pazienti inclusi nel Flatiron Health Database, che avessero ricevuto diagnosi di carcinoma uroteliale metastatico tra il 2015 e il 2017, e che fossero deceduti al momento dell’analisi.

Gli autori hanno valutato:

  • la percentuale di pazienti che aveva iniziato un qualunque trattamento antitumorale attivo nei 30-60 giorni precedenti la morte; 
  • la percentuale di pazienti che aveva iniziato un trattamento immunoterapico nei 30 giorni precedenti la morte;
  • la percentuale di pazienti che aveva iniziato un trattamento immunoterapico nei 60 giorni precedenti la morte
  • analisi di sottogruppo di tali percentuali in base al performance status del paziente

Nell’intero periodo di tempo considerato, il 17.0% dei pazienti aveva iniziato una terapia sistemica nei 30 giorni precedenti il decesso, e il 29.8% l’aveva iniziata nei 60 giorni precedenti il decesso.

La proporzione di pazienti che aveva iniziato una terapia con un immune checkpoint inhibitor negli ultimi 60 giorni di vita è salita, nel periodo di tempo considerato (2015-2017) dall’1.0% al 23% (tale andamento nel tempo è risultato statisticamente significativo, con un p value del test per il trend < 0.001).

In particolare, la proporzione di pazienti che hanno iniziato un trattamento con un farmaco immunoterapico è cresciuta significativamente nel sottogruppo di pazienti con performance status scaduto (p value del test per il trend = 0.02), mentre non è cambiata significativamente nel sottogruppo di pazienti con buon performance status.

Nel complesso, il maggior impiego di farmaci immunoterapici negli ultimi mesi di vita ha determinato un raddoppio della proporzione di pazienti che ha iniziato una terapia sistemica negli ultimi mesi di vita: tale proporzione, nell’intervallo di tempo considerato, è salita dal 17.4% al 34.8%.

Qualche anno fa, l’AIOM conduceva una survey promossa da AIOM giovani per valutare le problematiche relative ai cosiddetti trattamenti “a oltranza”: nello specifico, la survey si riferiva ai trattamenti proposti a pazienti che avessero già fallito le linee di terapia di provata efficacia. I farmaci immunoterapici di nuova generazione, nel caso dei pazienti affetti da neoplasia uroteliale avanzata, non ricadono esattamente in questa categoria, in quanto la loro attività e la loro efficacia è documentata anche da uno studio randomizzato di fase III (pembrolizumab) e da numerosi studi di fase II. Peraltro, il problema legato alla disponibilità di tali farmaci è la possibile “tentazione” di impiegarli anche in pazienti in cui il beneficio atteso è ragionevolmente molto modesto.

E’ ovvio che nessun oncologo inizia un trattamento sapendo che non servirà, ma i dati della pubblicazione statunitense documentano una maggior disinvoltura di prescrizione, specialmente nei pazienti con performance status scaduto, in molti dei quali la somministrazione del trattamento non consentirà un impatto significativo sull’evoluzione negativa della malattia.

Con tutti i limiti intrinsecamente legati a un endpoint misurabile solo “a posteriori” (la percentuale di pazienti che iniziano un trattamento negli ultimi 30, o 60 giorni di vita), bisognerebbe sempre ricordare che, pur essendo largamente imprecisi, alcuni fattori prognostici non possono essere ignorati nella valutazione delle indicazioni a trattamento attivo. Il performance status scaduto, nel carcinoma uroteliale avanzato come in molte altre neoplasie solide, è spesso associato a un’aspettativa di vita di pochi mesi, o addirittura poche settimane.

Le raccomandazioni di “Choosing wisely Italy” ricordano di “Non effettuare di routine terapia antitumorale nei pazienti affetti da tumori solidi con Performance Status (PS) compromesso (ECOG 3-4) o in progressione dopo 2-3 linee terapeutiche, ma privilegiare le cure palliative. I trattamenti antitumorali in genere hanno probabilità di essere inefficaci nei pazienti affetti da tumori solidi con le seguenti caratteristiche: basso performance status (3-4), non risposta a precedenti terapie evidence-based, non eleggibilità per un trial clinico, assenza di prove di efficacia di un ulteriore trattamento. Uniche eccezioni i pazienti in cui le limitazioni funzionali risultano dovute ad altre condizioni patologiche con un conseguente basso PS o pazienti con caratteristiche di malattia (ad esempio mutazioni genetiche) che suggeriscono un’alta probabilità di risposta alla terapia. La scelta di un approccio di rinuncia alle terapie antitumorali deve essere caratterizzata da appropriata terapia palliativa e di supporto (cure simultanee).”

Naturalmente, non tutti i pazienti che hanno iniziato un’immunoterapia nei 30-60 giorni prima della morte sono degli “errori”: in qualche caso, si può ragionevolmente sperare in un impatto positivo del trattamento sul performance status scaduto, in altri casi lo scadimento può essere stato effettivamente repentino e non completamente prevedibile. Peraltro, deve far riflettere il fatto che, nel giro di un paio d’anni, in cui l’unica variabile cambiata è stata la disponibilità dei farmaci immunoterapici nella pratica clinica, l’impiego dei trattamenti sistemici sia rapidamente aumentato.

Un po’ cinicamente, Bishal Gyawali, che è coautore del lavoro, definisce questo fenomeno la “Desperation Oncology”: una definizione forte, che però impone una riflessione critica.