Miscellanea
Sabato, 13 Febbraio 2021

Produrre evidenza “più imprecisa” per impiegare terapie meno costose: è possibile?

A cura di Massimo Di Maio

Un articolo molto provocatorio (troppo?) di Ian Tannock e altri illustri colleghi discute il concetto di “near-equivalence”: è possibile produrre evidenza per consentire l’impiego nella pratica clinica di trattamenti “cost-effective” più sostenibili economicamente?

Tannock IF, Ratain MJ, Goldstein DA, Lichter AS, Rosner GL, Saltz LB. Near-Equivalence: Generating Evidence to Support Alternative Cost-Effective Treatments. J Clin Oncol. 2021 Feb 8:JCO2002768. doi: 10.1200/JCO.20.02768. Epub ahead of print. PMID: 33555940.

Che molti trattamenti antitumorali di recente introduzione mettano seriamente a rischio la sostenibilità economica del sistema non è un mistero, e soprattutto non è un problema solo italiano ma mondiale.

Rispetto ai trattamenti standard, quando troppo costosi, sarebbe interessante poter produrre evidenza a sostegno dell’impiego alternativo di altre terapie, “quasi equivalenti” (“near-equivalent” è il termine usato da Ian Tannock e colleghi nel provocatorio articolo pubblicato dal Journal of Clinical Oncology) ma meno costose e quindi più sostenibili.

Il tradizionale approccio della “non inferiorità” prevederebbe peraltro un grande numero di pazienti, allo scopo di dimostrare in maniera “classica” che il trattamento alternativo abbia un’efficacia sovrapponibile al trattamento standard. Invece, l’approccio discusso nell’articolo propone un approccio di produzione dell’evidenza che, basandosi anche su dati di farmacocinetica e farmacodinamica, supporti l’impiego di alcune terapie che consentano di risparmiare garantendo ai pazienti un approccio terapeutico ragionevolmente equivalente allo standard.

E’ un terreno “minato”, ma sicuramente interessante. L’approccio della “near equivalence”, come specificano gli autori nell’introduzione dell’articolo, mira a offrire la maggior quantità possibile di beneficio al maggior numero possibile di pazienti in condizioni di limitate risorse economiche.

L’intenzione è più che apprezzabile: tale approccio, se basato su un’evidenza condivisa e solida, potrebbe aumentare l’accessibilità ai trattamenti e ridurre la tossicità finanziaria, scegliendo trattamenti che, con un minimo e accettabile sacrificio di efficacia, si propongano come alternative allo standard, spesso con migliore tossicità.

Gli autori passano in rassegna diversi esempi di “near-equivalence”.

1. Il trattamento alternativo non è stato confrontato direttamente con il nuovo standard, ma esistono studi che hanno confrontato il trattamento alternativo con il vecchio standard, simili agli studi che hanno portato precedentemente all’approvazione del nuovo standard.

Esempio 1: enzalutamide ha prodotto un simile beneficio rispetto ad abiraterone in diversi studi in cui entrambi sono stati confontati con il placebo, o con il precedente standard di trattamento, per il tumore della prostata in diversi stadi di malattia.

2. Se esistono setting clinici in cui alcuni farmaci hanno prodotto risultati simili, è plausibile che la stessa “near-equivalence” possa esserci, anche in assenza di uno studio specificamente condotto nel setting, anche in altri contesti.

Esempio 2A: Abiraterone non è stato specificamente sperimentato nel setting del tumore della prostata resistente alla castrazione in assenza di metastasi (M0). Darebbe risultati simili ad enzalutamide, apalutamide e darolutamide in questo setting, considerata la sovrapponibilità dei risultati ottenuti negli altri setting di malattia?
Esempio 2B: nivolumab e pembrolizumab hanno dimostrato efficacia simile in alcune indicazioni. Questo potrebbe rendere plausibile l’indicazione del più economico dei 2 nei setting in cui esista evidenza solo a sostegno dell’altro?

3. Studi di non inferiorità che formalmente non hanno raggiunto l’endpoint primario potrebbero essere “rivalutati” nelle situazioni in cui l’opzione “non inferiore” sarebbe comunque meglio di niente..

Esempio 3A: il trastuzumab adiuvante potrebbe essere usato per una durata inferiore a 12 mesi (ad esempio 6 mesi) anche se gli studi specificamente disegnati per la non inferiorità non avevano escluso una possibile riduzione significativa dell’efficacia?
Esempio 3B: la durata della chemioterapia adiuvante nel tumore del colon (3 mesi vs lo standard di 6 mesi) è stata oggetto di grande discussione, negli ultimi anni, dopo la pubblicazione della metanalisi IDEA. Formalmente lo studio non aveva consentito di escludere che la durata inferiore (3 mesi) sia associata a una modesta riduzione dell’efficacia, ma l’interpretazione in termini di “near-equivalence” consente di “rivalutare” l’impiego dei 3 mesi “nonostante” la non inferiorità non sia stata formalmente dimostrata

4. Studi di farmacodinamica e farmacocinetica, con piccoli numeri di pazienti, possono suggerire la “near-equivalence” di dosi ridotte, o differenti schedule di somministrazione, di farmaci approvati, con un possibile risparmio economico.

Esempio 4A: dosi ridotte di alcuni farmaci immunoterapici, o schedule con intervallo maggiore tra le somministrazioni, potrebbero sostituire la dose approvata per l’impiego
Esempio 4B: l’assunzione di abiraterone con il cibo ha suggerito la possibilità di impiegarne una dose inferiore rispetto alla somministrazione standard.

Se leggiamo l’articolo di Tannock e colleghi con il metro dell’attuale evidence-based medicine e dei criteri imposti dalle autorità regolatorie per consentire l’impiego “in label” dei farmaci, praticamente nessuno degli esempi suggeriti dagli autori dovrebbe essere impiegato nella pratica clinica. Meglio sgombrare subito il campo dall’equivoco: al momento, l’applicabilità degli affascinanti esempi elencati nel lavoro è nulla, non solo per la realtà italiana in considerazione dei paletti imposti da AIFA, ma praticamente in tutto il mondo.

Detto questo, lo scopo dell’articolo è volutamente provocatorio. Gli autori non immaginano (credo) che la loro proposta di “near-equivalence” possa essere accettata e modificare la pratica clinica da oggi a domani, ma sperano che queste considerazioni “rompano il ghiaccio” e si discuta dell’argomento senza considerarlo un tabù.

Molto lucidamente, gli autori riconoscono che, in un paese a reddito più elevato, l’utilità di percorrere il concetto della “near equivalence” e di impiegare un trattamento con una minore evidenza al posto di uno approvato sulla base dei parametri “canonici” e “tradizionali” sarà fortemente contestata. Più immediata potrebbe essere la percezione del beneficio (economico) nei paesi a reddito più basso, dove la minaccia di non avere accesso ai trattamenti standard è concreta, e quindi l’alternativa a una soluzione di “near-equivalence” potrebbe essere, purtroppo, il non trattamento.

Lo stesso Ian Tannock aveva introdotto questo concetto qualche anno fa, commentando i risultati ottenuti con la durata più breve del trastuzumab adiuvante: non sufficienti per dimostrare la non inferiorità rispetto a 1 anno, che è rimasto lo standard, ma una possibilità interessante, in alternativa a non potersi permettere 1 anno di terapia, per i paesi meno ricchi. In ottica globale, una prospettiva interessante.

La possibilità di ridurre la dose di abiraterone assumendolo con il cibo è stata in passato più volte invocata da Marc Ratain, che non a caso ha ripreso l’argomento in questo lavoro tra gli esempi di possibile “near equivalence”. Anche la letteratura su evidenze di farmacodinamica e farmacocinetica che suggeriscono simile efficacia dei farmaci immunoterapici anche a dosi più basse o intervalli maggiori sta aumentando. Peraltro, lo stesso passaggio dal nivolumab a dose per kg (che era la dose usata negli studi registrativi) al nivolumab a dose fissa è stato basato non su studi di formale equivalenza ma su studi di farmacologia.

Più (troppo?) disinvolto ancora appare il suggerimento di impiegare un farmaco in un’ indicazione nella quale non ha dimostrato direttamente efficacia (ad esempio l’abiraterone in setting in cui non è stato sperimentato, come il tumore della prostata resistente alla castrazione in assenza di metastasi, contando sulla presunta simile efficacia rispetto agli altri farmaci ormonali di nuova generazione specificamente testati nel setting). L’insistenza degli autori sull’abiraterone è legata, ovviamente, al fatto che la scadenza del brevetto rende questo farmaco molto più conveniente economicamente rispetto alle alternative. Dal mio punto di vista, questo sarebbe un ottimo razionale per produrre evidenza in setting come quelli invocati dagli autori, magari con la conduzione di studi accademici che colmino l’assenza di evidenza.

Una lettura provocatoria, insomma, e stimolante. Destinata a essere “bollata” da molti come “chiacchiere in libertà”, ma penso che sentiremo ancora parlare della “near-equivalence”…