Patologia gastrointestinale
Venerdì, 15 Ottobre 2021

Biopsia liquida nel tumore colorettale: la controversa gestione dei pazienti molecolarmente metastatici

A cura di Giuseppe Aprile

Pazienti con tumore del colon resecato radicalmente. Uno studio internazionale ripropone l’importanza della biopsia liquida in setting postoperatorio per identificare i soggetti ad alto rischio di ricaduta. Quale innovativa strategia proporre ai soggetti molecolarmente metastatici?

 

Dopo il prolungato dibattito riguardo alla durata ottimale della chemioterapia adiuvante – con ripetute analisi del colossale progetto accademico IDEA che ha arruolato quasi 13.000 pazienti resecati di neoplasia del colon, inclusi in sei trial clinici randomizzati -, il trattamento del carcinoma del colon sta vivendo una battuta di arresto.

C’è la necessità di favorire lo sviluppo di metodiche che possano utilizzare marcatori biologici prognostici e predittivi in grado di personalizzare la terapia sul singolo paziente. In una visione moderna, l’applicazione pratica della biopsia liquida – una metodica ripetibile, affidabile e poco invasiva per identificare il DNA tumorale circolante [ctDNA]- non solo è in grado di captare e riflettere fedelmente l’eterogeneità tumorale, ma anche aiutare a selezionare pazienti che avrebbero indicazione a una terapia depotenziata ovvero ad una intensificata.

I pazienti radicalmente resecati per adenocarcinoma del colon in stadio III hanno un rischio di recidiva moderato-alto, la cui quantificazione dipende dalla conoscenza di fattori biologici e caratteristiche di presentazione della neoplasia. Ciononostante, la metà di questi pazienti sono guariti con il solo atto chirurgico e potrebbero quindi non necessitare ulteriore trattamento chemioterapico adiuvante.

Lo studio internazionale indaga l’utilità della biopsia liquida seriata eseguita subito dopo la chirurgia, durante la terapia postoperatoria e poi nel follow-up nel predire la ricaduta. Inoltre, analizza quale ruolo abbia il ctDNA nell’efficacia della terapia adiuvante e nella possibilità di ricaduta precoce oltre ad analizarne le possibili implicazioni in caso di aumento lento o rapido nel plasma dei pazienti.

I campioni biologici erano raccolti in tubi K2-EDTA da 10 ml(Becton Dickinson) e analizzato con metodiche standard, per una relazione con la RFS dei pazienti inclusi.

Tra i 168 pazienti inclusi nello studio, ne sono stati analizzati 160 dai quali sono stati raccolti oltre 1200 campioni ematici [media di 7 determinazioni del ctDNA per paziente]. In complesso le rivadute sono state 40 pari ad esattamente il 25%.

Per i pazienti ctDNA+ il tasso di ricaduta è stato del 80% vs un tasso di ricaduta del 18% registrato nei pazienti ctDNA-.

Il riscontro di ctDNA confermava un forte predittore di ricaduta sia dopo la chirurgia sul primitivo (HR=7.0; 95%CI 3.7-32 13.5, P<0.001) che in modo ancora più convincente dopo il termine della chemioterapiapostoperatoria (HR=50.76; 95%CI 15.4-167, P<0.001).

L’analisi seriata di biopsie liquide ha inoltre evidenziato: a. due differenti pattern di aumento del ctDNA: slow (27% ctDNA-increase/mese) vs fast (137% ctDNA-increase/mese) (p<0.001); b. un’evidenza di ricaduta anticipata di quasi 10 mesi rispetto a quella radiologica.

Il messaggio dello studio non è particolarmente innovativo, ma è utile a rinforzare l’evidenza di altri lavori scientifici: tre precedenti ricerche [Tie, et al. JAMA Oncol 2019; Reinter et al, JAMA Oncol 2019; Tarazona N, et al. ASCO 2020] hanno infatti coerentemente evidenziato vi sia una forte correlazione tra il ctDNA postoperatorio o post trattamento adiuvante e una precoce ricaduta.

Manca però la diretta applicabilità clinica: la biopsia liquida per la ricerca del ctDNA – che richiede expertise ed adeguata tecnologia - non è ancora entrata nell’uso routinario in molti i centri italiani, che in linea con le indicazioni di letteratura considerano come più importanti fattori nella stima del rischio di ricaduta il T4 e la sottostadiazione linfonodale.   

I trial clinici in corso dovranno rispondere a come sfruttare queste analisi nella stratificazione del rischio dei pazienti operati, per differenziare chi ha eccellenti chance di essere già guarito dopo al chirurgia [per chi quindi la chemioterapia postoperatoria rappresenterebbe un overtreatment] da chi invece ha possibilità di ricaduta molto elevate [per cui potrebbe essere indicata una intensificazione della terapia postoperatoria]. In questa linea di ricerca si stanno muovendo lo studio PEGASUS e altre sperimentazioni cliniche.  

Se il tasso di crescita del ctDNA nei pazienti molecolarmente metastatici possa anche fare scegliere chi richiede un trattamento immediato vs chi possa attendere l’evidenza radiologica di malattia non è al momento chiarito.

Rimane anche da stabilire quale tra le metodiche disponibili sia da preferire per la nota differente sensibilità che varia tra un valore >1% per la whole genome sequencing a un valore < 0.01% per la droplet PCR.