Patologia gastrointestinale
Sabato, 12 Dicembre 2020

Chemioterapia nell’epatocarcinoma, ha senso parlarne? In Italia no, ma nel mondo ci sono ricchi e poveri…

A cura di Massimo Di Maio

Una revisione sistematica degli studi di chemioterapia nell’epatocarcinoma può apparire, nell’era dei farmaci target e dell’immunoterapia, assolutamente anacronistica, e probabilmente lo è. Ricordiamoci però che in molti paesi del mondo i farmaci ad alto costo rimangono un miraggio.

Abouelezz K, Khanapara D, Batiha GE, Ahmed EA, Hetta HF. Cytotoxic Chemotherapy as an Alternative for Systemic Treatment of Advanced Hepatocellular Carcinoma in Developing Countries. Cancer Manag Res. 2020 Nov 27;12:12239-12248. doi: 10.2147/CMAR.S280631. PMID: 33273860; PMCID: PMC7707432.

Tradizionalmente, la chemioterapia è stata poco impiegata nell’epatocarcinoma, a causa della scarsa attività e dell’elevato rischio di tossicità dei farmaci citotossici nei pazienti epatopatici. Gran parte delle evidenze prodotte negli scorsi decenni erano basate sull’impiego della doxorubicina, poi l’interesse per la chemioterapia è stato rapidamente “eclissato” dall’avvento dei farmaci a bersaglio molecolare.

Il sorafenib è stato il primo farmaco a bersaglio molecolare a dimostrare efficacia nell’epatocarcinoma. Peraltro, venne testato impiegando il placebo come braccio di controllo, in quanto all’epoca, pur in assenza di farmaci efficaci, la chemioterapia non era considerata un vero e proprio standard. Negli ultimi anni, si sono susseguiti risultati positivi con vari farmaci a bersaglio molecolare (il lenvatinib come alternativa al sorafenib nel trattamento di prima linea, il regorafenib, il cabozantinib, il ramucirumab nei pazienti candidati a un trattamento di seconda linea dopo il fallimento del sorafenib). Più di recente, i farmaci immunoterapici di nuova generazione hanno prodotto risultati positivi, e la combinazione di atezolizumab e bevacizumab, già riconosciuta dalle linee guida ASCO come trattamento di prima linea, è destinata a diventare il trattamento standard anche in Italia.

Tutti questi farmaci sono molto costosi, e il tema della sostenibilità è da vari anni al centro del dibattito scientifico in tutto il mondo. Bisogna però ricordarsi che, se in Italia diamo per scontata la possibilità di impiegare i trattamenti più innovativi, in molti paesi del mondo purtroppo non è così.

Oltre l’80% dei casi mondiali di epatocarcinoma viene diagnosticato in paesi in via di sviluppo, dove il reddito pro capite è nettamente più basso rispetto all’Europa o al nord America. In molti di questi paesi, è impensabile sostenere il costo di un farmaco a bersaglio molecolare, o di un farmaco immunoterapico di nuova generazione. In tale situazione, diventa importante valutare l’evidenza a sostegno di trattamenti, come la chemioterapia, che sicuramente non sono parte dell’algoritmo suggerito dalle linee guida più importanti, ma che hanno il vantaggio di costare nettamente meno dei farmaci più nuovi.

In quest’ottica, gli autori dell’articolo pubblicato da Cancer Management and Research hanno condotto una revisione sistematica, degli studi che hanno valutato il trattamento chemioterapico nei pazienti con epatocarcinoma avanzato. In particolare, considerato che una storica metanalisi che aveva preso in considerazione l’evidenza fino al 1997 (Simonelli et al, Annals of Oncology 1997) aveva constatato l’assenza di efficacia della chemioterapia (in particolare della doxorubicina), gli autori hanno considerato gli studi più recenti, pubblicati dal 1997 in poi.

Sono stati ricercati gli studi randomizzati su Scopus, PubMed, e Cochrane library, fino al febbraio 2020.

La conduzione di una metanalisi vera e propria era subordinata alla disponibilità di studi omogenei dal punto di vista del disegno e del tipo di farmaci impiegati.

Gli autori hanno identificato 6 studi randomizzati, tutti condotti nel setting di pazienti candidati a trattamento di prima linea per epatocarcinoma avanzato, e non eleggibili per trattamenti locali:

  1. Fase II randomizzato di capecitabina (26 pazienti) vs sorafenib (26 pazienti) (Abdel-Rahman, Med Oncol. 2013;30(3):655)
  2. Fase III randomizzato di FOLFOX (184 pazienti) vs doxorubicina (187 pazienti) (Qin, J Clin Oncol. 2013;31(28):3501–3508).
  3. Fase III randomizzato di nolatrexed (222 pazienti) vs doxorubicina (223 pazienti) (Gish, J Clin Oncol. 2007;25(21):3069–3075).
  4. Fase III randomizzato di polichemioterapia con schema PIAF (cisplatino, interferone, doxorubicina, fluorouracile) (94 pazienti) vs doxorubicina (94 pazienti) (Yeo, J Natl Cancer Inst. 2005;97(20):1532–1538).
  5. Fase II randomizzato di doxorubicina + sorafenib (47 pazienti) vs doxorubicina + placebo (49 pazienti) (Abou Alfa, JAMA. 2010;304(19):2154–2160).
  6. Fase II randomizzato di nolatrexed (36 pazienti) vs doxorubicina (18 pazienti) (Mok, Cancer Chemother Pharmacol. 1999;44(4):307–311).

Principali risultati:

  1. Lo studio di confronto tra capecitabina e sorafenib ha documentato outcomes peggiori con la capecitabina. La sopravvivenza libera da progressione mediana è risultata pari a 6 mesi con il sorafenib, rispetto a 4 mesi con la capecitabina (Hazard Ratio 2.708, p<0.005). Anche la sopravvvivenza globale è risultata inferiore con la capecitabina, con una mediana pari a 5.07 mesi rispetto ai 7.05 mesi con sorafenib (Hazard Ratio 2.36, p<0.016).
  2. Lo studio di confronto tra FOLFOX e doxorubicina ha evidenziato per i pazienti asegnati a FOLFOX un prolungamento statisticamente significativo della sopravvivenza libera da progressione (mediana 2.93 mesi rispetto a 1.77 con la doxorubicina, Hazard Ratio 0.62, p<0.001) e un prolungamento della sopravvivenza globale che però non è statisticamente significativo (mediana 6.4 mesi con FOLFOX rispetto a 4.79 mesi con doxorubicina, Hazard Ratio 0.80, p=0.07). Un analisi di sottogruppo evidenziava beneficio significativo per FOLFOX nei pazienti cinesi.
  3. Lo studio di fase III di confronto tra nolatrexed e doxorubicina non ha documentato differenze significative in PFS, ma una sopravvivenza globale significativamente peggiore con il nolatrexed (mediana 5.13 mesi rispetto a 7.43 mesi con la doxorubicina, Hazard Ratio 0.753, p=0.0068)
  4. Lo studio di fase III di confronto tra PIAF e doxorubicina non ha documentato differenze significative, con una sopravvivenza globale mediana pari a 6.83 mesi con la doxorubicina e 8.67 mesi con il PIAF (Hazard Ratio 0.97, p=0.83).
  5. Lo studio randomizzato di confronto tra doxorubicina + sorafenib e doxorubicina + placebo ha confermato l’efficacia del sorafenib, con un vantaggio significativo a favore del braccio di combinazione sia in termini di PFS (mediana 6 vs 2.7 mesi, Hazard Ratio 0.45, p=0.006) che in termini di sopravvivenza globale (mediana 13.7 vs 6.5 mesi, Hazard Ratio 0.49, p=0.006).
  6. Il piccolo studio di fase II randomizzato di confronto tra nolatrexed e doxorubicina non ha evidenziato differenze significative né in PFS né in sopravvivenza globale. 

In considerazione dell’eterogeneità dei trattamenti sperimentati, e della diversità dei bracci di controllo, gli autori non hanno eseguito una metanalisi formale dei 6 studi identificati.

Gli autori riconoscono che l’evidenza disponibile in letteratura non documenta alcuna efficacia sostanziale della chemioterapia nei pazienti con epatocarcinoma. Nessun vantaggio chiaro in sopravvivenza libera da progressione, nessun beneficio in risposte obiettive, nessun beneficio statisticamente significativo in sopravvivenza globale.

Questi dati sanciscono la “morte” definitiva della chemioterapia nell’epatocarcinoma? Ebbene, quella che per alcuni può sembrare una conclusione scontata, in realtà porta gli autori della revisione a guardare la questione da tutt’altro punto di vista. In un contesto economico in cui non sono disponibili i farmaci efficaci e costosi, la chemioterapia può comunque rappresentare una opzione terapeutica. Nella difficoltà economica, ci si può “aggrappare” ai deboli risultati ottenuti con lo schema FOLFOX per proporre un’alternativa allo standard troppo costoso. Gli autori ricordano, nella discussione, che sulla base dell’analisi di sottogruppo dei pazienti cinesi inseriti nello studio randomizzato di confronto tra FOLFOX e doxorubicina, l’ente regolatorio cinese ha approvato l’oxaliplatino per il trattamento dell’epatocarcinoma candidato a trattamento sistemico.

L’importanza di questo articolo per la nostra attività clinica quotidiana può essere nulla o altissima, a seconda del punto di vista con il quale guardiamo l’argomento. Chi ha letto questo tweet cercando implicazioni per l’attuale pratica clinica italiana, può chiudere tranquillamente la lettura avendo avuto conferma che le implicazioni sono nulle. Tuttavia, chi scrive è convinto che, ai fini di un impiego consapevole delle risorse economiche, è importante che, anche in Italia, ci rendiamo conto che molte cose che diamo per scontate (come la disponibilità, nell’ambito della copertura del servizio sanitario nazionale, di farmaci ad elevato costo) è in realtà una conquista preziosa, e che ci sono molti pazienti, in altre realtà meno fortunate, in cui i farmaci a bersaglio molecolare o l’immunoterapia rimangono un miraggio.

Nessuno degli schemi di trattamento citati in questa revisione sistematica trova spazio nelle attuali linee guida AIOM o nel recente aggiornamento delle linee guida ASCO per il trattamento dell’epatocarcinoma.

Teniamo presente però che, per molti pazienti nel mondo, l’alternativa concreta agli schemi discussi nell’articolo non sono i farmaci raccomandati dalle linee guida, ma la sola terapia di supporto.