Patologia gastrointestinale
Venerdì, 21 Agosto 2020

Tumori delle vie biliari: il ruggito della precisione

A cura di Giuseppe Aprile

Dopo i promettenti risultati degli inibitori di FGFR2 e degli inibitori di IDH, pubblicati i dati del trial ROAR che testa BRAF inibitori in popolazione molecolarmente selezionata con neoplasia biliare avanzata pretrattata. 

Subbiah V, Lassen U, Élez E, et al. Dabrafenib plus trametinib in patients with BRAFV600E-mutated biliary tract cancer (ROAR): a phase 2, open-label, single-arm, multicentre basket trial. Published online ahead of print, 2020 Aug 17. Lancet Oncol. 2020

Ancora una volta un passo avanti nell’oncologia di precisione, questa volta con risultati promettenti per pazienti con neoplasia delle vie biliari.

In questa neoplasia, poco frequente e dalla prognosi infausta se diagnosticata in fase avanzata, lo standard di trattamento rimane ancorato alla chemioterapia sistemica, sebbene da alcuni anni si scriva ipotizzando sulle possibilità terapeutiche nascoste nello studio della biologia molecolare e della sua eterogeneità (Brandi G, et al. Oncology 2015; Moeini A, et al. Clin Cancer Res 2016).

In epoca recente alcune strategie di trattamento sembrano essere particolarmente promettenti:

- gli inibitori di FGFR2 per i colangiocarcinomi intraepatici (Abou-Alfa GK, et al. Pemigatinib for previously treated, locally advanced or metastatic cholangiocarcinoma: a multicentre, open-label, phase 2 study. Lancet Oncol 2020, epub ahead of print),

- gli inibitori di IDH 1 e 2 (Abou-Alfa G, et al. Ivosidenib in IDH1-mutant, Chemotherapy-Refractory Cholangiocarcinoma (ClarIDHy): A Multicentre, Randomised, Double-Blind, Placebo-Controlled, Phase 3 Study: Lancet Oncol 2020)

- gli inibitori di HER2 (Vivaldi C, et al. HER2 Overexpression as a Poor Prognostic Determinant in Resected Biliary Tract Cancer. Oncologist 2020]

Nella segmentazione molecolare di questa patologia ora trova spazio anche lo studio della mutazione di BRAF, presente in circa il 5% della popolazione (soprattutto nelle neoplasie intraepatiche), associata a uno stadio meno favorevole al momento della resezione, a una maggiore probabilità di positività linfonodale e a una ridotta sopravvivenza.

La combinazione di dabrafenib (BRAF inibitore) e trametinib (MEK inibitore) ha dimostrato efficacia in molte patologie con mutazione di BRAV V600E, incluso il melanoma, il tumore polmonare non a piccole cellule e il tumore anaplastico della tiroide. Nell’ambito del programma ROAR (Rare Oncology Agnostic Research) gli autori presentano i risultati di un trial di fase 2, multicentrico, open-label nel quale pazienti con colangiocarcinoma avanzato, pretrattato, con mutazione di BRAF V600E e PS 0-2 secondo ECOG ricevvevano la combinazione di dabrafenib (150 mg bid) e trametinib (2 mg/die) fino a progressione radiologica determinata con criteri RECIST 1.1; endpoint primario dello studio era il tasso di risposta, basandosi sul tasso di risposta storico del 10%.

Lo studio ha arruolato 43 pazienti, con età mediana 57 anni e un range di età di 26-77, e origine caucasica nella grande maggioranza (91%).

Oltre il 90% dei pazienti avevano neoplasia intraepatica.

Ad un follow-up mediano di 10 mesi, il tasso di risposte obiettive, concorde tra investigatori e revisione centralizzata in cieco, si attestava al 50%, con un 40% di stabilità di malattia. Non si registravano risposte complete. Il tasso di sopravvivenza libera da progressione era del 63% a sei mesi e del 30% a un anno.

La combinazione risultava inoltre ben tollerata, con tossicità biochimica di grado 3 nel 12% dei pazienti (aumento delle transaminasi) e iperpiressia nel 19%. Non sono state registrate morti relate al trattamento.

Il messaggio dello studio conferma che la combinazione di dabrafenib e trametinib abbia una notevole attività in pazienti con colangiocarcinoma intraepatico BRAF mutato e incoraggia a testare in questa popolazione la alterazione genica.

Nuove speranze quindi per pazienti con una malattia rara e a prognosi poco favorevole; sebbene i dati disponibili provengano da uno studio non randomizzato e che ha incluso pazienti molto fit (e alcuni preselezionati per la mutazione driver), la terapia target sembra avere risultati in attività migliori rispetti a quelli ottenuti nello stesso setting dall’immunoterapia ad agente singolo che ha un tasso di risposta decisamente inferiore (5% per pembrolizumab, 20% per nivolumab).