Patologia genito-urinaria
Sabato, 21 Gennaio 2023

Immunoterapia adiuvante nel tumore del rene: incastrare i pezzi del puzzle è complicato…

A cura di Massimo Di Maio

Una revisione sistematica e metanalisi degli studi disponibili prova a fare il punto sull’efficacia dell’immunoterapia come trattamento adiuvante dei pazienti operati per tumore del rene. Uno studio positivo, gli altri negativi. Risultato complessivo negativo, con sottogruppi interessanti. Insomma, sistemare il puzzle è complicato…

Fernando Sabino Marques Monteiro, Andrey Soares, Alessandro Rizzo, Matteo Santoni, Veronica Mollica, Enrique Grande, Francesco Massari. The role of immune checkpoint inhibitors (ICI) as adjuvant treatment in renal cell carcinoma (RCC): A Systematic Review and Meta-Analysis. Clinical Genitourinary Cancer. Published:January 19, 2023 DOI:https://doi.org/10.1016/j.clgc.2023.01.005

I tentativi di identificare trattamenti adiuvanti efficaci nel tumore del rene sono stati a lungo frustranti. Una percentuale non piccola dei pazienti va incontro a recidiva di malattia dopo l’intervento chirurgico, quindi sicuramente si tratta di un setting caratterizzato da un importante bisogno terapeutico.

Numerosi trials clinici condotti negli scorsi decenni avevano testato il potenziale beneficio di varie categorie di farmaci (interferoni, antiangiogenici, TKI tra gli altri), ma non avevano mai dato risultati positivi in maniera convincente, o perché negativi o perché, pur con qualche segnale di efficacia, il trattamento risultava caratterizzato da una tossicità tutt’altro che trascurabile (trattandosi di pazienti teoricamente guariti) e da una compliance subottimale.

Tra questi trials, solo a titolo di esempio, c’erano l'ASSURE (sorafenib o sunitinib in pazienti ad alto rischio), lo studio S-TRAC (sunitinib), il PROTECT (pazopanib), l'ATLAS (axitinib) e il SORCE (sorafenib).

L’anno scorso, su Oncotwitting, abbiamo commentato il risultato positivo dello studio condotto con l’immunoterapico pembrolizumab (https://www.oncotwitting.it/patologia-genito-urinaria/nuovo-standard-terapeutico-per-il-tumore-del-rene-operato-un-altro-traguardo-per-l-immunoterapia#top_tab_acc1). Lo studio KEYNOTE-564, che ha randomizzato 1:1 pazienti con carcinoma renale a cellule chiare a ricevere pembrolizumab (200 mg q3 weeks) ovvero placebo per un anno dopo la nefrectomia radicale, includeva anche pazienti con una chirurgia radicale su sede metastatica, identificati come stadio IV NED. Il risultato positivo dello studio in termini di disease-free survival (DFS) è stato salutato come la prima solida dimostrazione di beneficio nel setting adiuvante.

Peraltro, negli ultimi anni non è stato quello l’unico studio condotto con immune checkpoint inhibitors in questo setting. Altri studi hanno prodotto risultati negativi, e questo rende ancora più interessante il dibattito scientifico sull’efficacia della strategia adiuvante in questo setting.

Per mettere ordine nell’evidenza disponibile, gli autori del lavoro pubblicato a gennaio 2023 da Clinical Genitourinary Cancer hanno condotto una revisione sistematica e metanalisi basata sui dati pubblicati in letteratura.

Obiettivo principale dell’analisi era la stima del beneficio, in termini di DFS, con l’impiego di immune checkpoint inhibitors nel setting adiuvante, per i pazienti operati per tumore del rene in stadio iniziale (ed eventualmente in stadio IV ma con metastasi resecate).

La ricerca dei lavori disponibili in letteratura è aggiornata al settembre 2022.

L’analisi è stata condotta sia nella popolazione complessiva intention-to-treat (ITT) sia in sottogruppi predefiniti di pazienti, peraltro con informazioni non necessariamente disponibili in tutte le pubblicazioni.

Complessivamente, sono stati inclusi nell’analisi 4 studi randomizzati, per un totale di 3407 pazienti.

Il trattamento immunoterapico del braccio sperimentale di ciascuno studio era rappresentato rispettivamente da pembrolizumab (496 pazienti), atezolizumab (390 pazienti), nivolumab (404 pazienti) e nivolumab + ipilimumab (405 pazienti).

Gli studi differivano per il disegno (in aperto il nivolumab, confrontato con sola osservazione; in cieco, con placebo, gli altri tre). Lo studio di nivolumab prevedeva una parte neoadiuvante, oltre al trattamento adiuvante.

Nella popolazione complessiva ITT non è stato raggiunto un beneficio statisticamente significativo a favore del trattamento sperimentale rispetto al braccio di controllo (Hazard Ratio 0.85, intervallo di confidenza al 95% 0.69-1.04). La metanalisi presenta un’eterogeneità elevata (determinata sostanzialmente dal risultato del pembrolizumab, nettamente diverso rispetto agli altri tre).

Le analisi di sottogruppo hanno evidenziato un beneficio significativo in termini di DFS:

  • nel sottogruppo dei pazienti selezionati per l’espressione di PDL1 Hazard Ratio 0.72, intervallo di confidenza 0.55-0.94);
  • nel sottogruppo dei pazienti a rischio intermedio-alto (Hazard Ratio 0.77, intervallo di confidenza al 95% 0.63 - 0.94);
  • nei pazienti con componente sarcomatoide all’esame istologico Hazard Ratio 0.66, intervallo di confidenza al 95% 0.43 - 0.99).

Gli autori, commentando i risultati sopra sintetizzati, sottolineano che, a differenza del singolo studio condotto con il pembrolizumab, la metanalisi di tutti i 4 studi che hanno testato un trattamento immunoterapico non produce un risultato complessivo statisticamente significativo. Peraltro, a giudizio degli autori, i risultati positivi documenti dalle analisi di sottogruppo in alcune tipologie specifiche di pazienti (rischio intermedio-alto, istologia sarcomatoide, casi con espressione di PDL1) impongono una riflessione sulla necessità di “personalizzare” le scelte terapeutiche, prendendo in considerazione l’eventuale indicazione al trattamento adiuvante in alcuni pazienti e non in altri.

Va detto che l’interpretazione di questi risultati è molto complessa. I farmaci testati nei 4 studi sono “simili” per meccanismo d’azione, e questo rende poco plausibile che solo uno dei 4 trattamenti testati funzioni e gli altri no.

Le differenti proporzioni di pazienti con varie caratteristiche nei diversi studi bastano a giustificare il differente risultato osservato? O la spiegazione più probabile è che le differenze siano casuali? Non è facile dirlo, e non è facile capire quale peso dare alle analisi di sottogruppo nella decisione terapeutica, anche considerando il fatto che si basano solo su una parte degli studi, essendo molte informazioni non disponibili in tutti. Inoltre, l'ideale sarebbe indagare l'eventuale interazione significativa tra una certa caratteristica (es. PDL1 assente oppure presente) e l'efficacia del trattamento, mentre i risultati presentati nel lavoro descrivono (chiaramente con intento esploratorio) l'efficacia del trattamento nei singoli sottogruppi (es. PDL1 elevato), sottolineando la significatività ottenuta in alcuni e non in altri. 

In questi casi, si dice sempre che le analisi di sottogruppo andrebbero usate per generare ipotesi, ma è oggettivamente difficile disegnare e condurre ulteriori studi, nel setting adiuvante, sia con trattamenti eventualmente già approvati come il pembrolizumab (che ha ricevuto approvazione EMA e che già è considerato il braccio di controllo dei futuri studi),  sia (a maggior ragione) con trattamenti che abbiano prodotto risultati negativi negli studi registrativi. Quindi, è molto difficile produrre ulteriori evidenze prospettiche che chiariscano i dubbi generati dalle analisi di sottogruppo.