Patologia genito-urinaria
Sabato, 20 Giugno 2020

L’immunoterapia funziona in chi non può fare chemio? Sì, ma non in tutti...

A cura di Massimo Di Maio

Dati aggiornati confermano l’attività dell’immunoterapia in pazienti con tumore della vescica avanzato, non eleggibili per la chemioterapia con cisplatino. Buoni segnali di attività e risposte di lunga durata, ma solo in alcuni pazienti.

Vuky J, Balar AV, Castellano D, et al. Long-Term Outcomes in KEYNOTE-052: Phase II Study Investigating First-Line Pembrolizumab in Cisplatin-Ineligible Patients With Locally Advanced or Metastatic Urothelial Cancer [published online ahead of print, 2020 Jun 17]. J Clin Oncol. 2020;JCO1901213. doi:10.1200/JCO.19.01213

Le combinazioni di chemioterapia contenenti cisplatino sono, al momento, il gold standard per i pazienti candidati a trattamento per un tumore della vescica (o comunque dell’urotelio) in stadio avanzato Negli ultimi anni, numerosi studi sono stati condotti, nel setting dei tumori uroteliali localmente avanzati o metastatici, con farmaci immunoterapici di nuova generazione (immune checkpoint inhibitors), in particolare con farmaci anti-PD1 o anti-PDL1, sia nel trattamento di pazienti che abbiano fallito una precedente chemioterapia contenente platino, sia, più recentemente, in combinazione con la chemioterapia contenente platino. Del tutto recentemente, avelumab ha anche dimostrato efficacia come terapia di mantenimento al completamento della terapia contenente platino.

Purtroppo, circa un terzo dei pazienti non è eleggibile a ricevere cisplatino, per insufficienza renale o per altre patologie concomitanti. In questi pazienti, al momento della scelta del trattamento di prima linea possono essere presi in considerazione gli schemi contenenti carboplatino. Peraltro, sulla base della dimostrazione di attività ed efficacia dimostrata nei suddetti setting, vari studi hanno testato i farmaci immunoterapici anche come trattamento di prima linea, in pazienti unfit per la chemioterapia.

Lo studio KEYNOTE-052 era uno studio di fase II, a singolo braccio. L’obiettivo era la valutazione dell’attività e della tollerabilità del pembrolizumab (somministrato come agente singolo) quale trattamento di prima linea dei pazienti affetti da carcinoma uroteliale, localmente avanzato o metastatico, non eleggibili per la chemioterapia con cisplatino.

Lo studio ha visto il trattamento di 370 pazienti, che hanno ricevuto il pembrolizumab alla dose di 200 mg ev ogni 3 settimane, per un massimo di 24 mesi.

La risposta era valutata ogni 9 settimane, mediante criteri RECIST 1.1, ed era prevista revisione indipendente centralizzata.

Endpoint primario della sperimentazione era la proporzione di risposte obiettive.

Analisi di sottogruppo sono state condotte sulla base dell’espressione di PDL1, considerando come espressione elevata un valore di CPS uguale o superiore a 10.

L’analisi riportata nella pubblicazione è basata su un follow-up discretamente lungo rispetto all’inizio del trattamento (minimo 2 anni dall’inserimento dell’ultimo paziente).

Nella casistica complessiva, sono state registrate 106 risposte obiettive, pari al 28.6% (intervallo di confidenza al 95% 24.1% - 33.5%). Nel dettaglio, 33 pazienti hanno ottenuto una risposta completa (pari all’8.9%) e 73 pazienti hanno ottenuto una risposta parziale (pari al 19.7%).

La durata mediana della risposta è stata pari a 30.1 mesi (intervallo di confidenza al 95%, 18.1 – non raggiunta). La risposta è durata oltre 12 mesi nel 67% dei pazienti, e oltre 24 mesi nel 52% dei pazienti.

Sul totale della casistica in studio, 40 pazienti tra quelli che hanno ottenuto una risposta parziale o completa hanno completato 2 anni di trattamento con pembrolizumab, e di essi 32 erano ancora in risposta al momento del completamento dei 2 anni.

La sopravvivenza mediana è risultata pari a 11.3 mesi (intervallo di confidenza al 95% 9.7 – 13,1 mesi). La probabilità di sopravvivenza a 12 mesi è risultata pari al 46.9%, e pari al 31.2% quella a 24 mesi.

L’analisi di sottogruppo dei pazienti con elevata espressione di PDL1 (CPS ≥ 10) ha documentato una risposta obiettiva nel 47.3% dei pazienti (intervallo di confidenza al 95%, 37.7% - 57.0%), con una sopravvivenza mediana pari a 18.5 mesi (intervallo di confidenza al 95%, 12.2 - 28.5).

L’analisi di sottogruppo dei pazienti con malattia solo linfonodale ha documentato una risposta obiettiva nel 49.0% dei pazienti (intervallo di confidenza al 95%, 34.8% - 63.4%), con una sopravvivenza mediana pari a 27.0 mesi (intervallo di confidenza al 95%, 12.4 – non raggiunta).

Sulla base dei dati presentati in quest’analisi, l’immunoterapia con l’impiego del pembrolizumab si conferma un trattamento attivo nei pazienti con tumore uroteliale avanzato che, per controindicazioni al platino, hanno ricevuto il trattamento immunoterapico in prima linea.

Come spesso è capitato di commentare a proposito delle curve di sopravvivenza ottenute con questi farmaci (in questo caso in uno studio a braccio singolo, e non in uno studio randomizzato), la mediana non “cattura” tutta l’informazione utile: più ancora che la sopravvivenza mediana di poco superiore a 11 mesi, colpisce infatti la minoranza di pazienti che, grazie a risposte molto durature, è viva a distanza di anni dall’inizio del trattamento.

In quest’aspetto c’è il maggior punto di forza, ma anche il maggior punto debole, di questi risultati.

Il punto di forza è sicuramente quello della concreta chance di attività e di efficacia, che in pazienti non candidati a chemioterapia assume un valore clinico ancora maggiore.

Il punto di debolezza, purtroppo, è che il beneficio è indubbiamente limitato ad una minoranza dei pazienti trattati, mentre alcuni progrediscono dopo poco tempo, con beneficio nullo o comunque effimero. Da questo punto di vista, le analisi di sottogruppo tentano di identificare quali pazienti si beneficino maggiormente del trattamento e quali, al contrario, se ne beneficino di meno: l’espressione di PDL1 si conferma, in questo studio, utile come fattore di selezione, pur non essendo ottimale né come fattore predittivo positivo né come fattore predittivo negativo.

Le linee guida NCCN elencano sia l’atezolizumab che il pembrolizumab tra le opzioni di trattamento preferite (insieme con la combinazione di carboplatino e gemcitabina) per i pazienti unfit per cisplatino. Sulla base di dati che, per entrambi i farmaci, hanno evidenziato una maggiore attività nei casi con espressione di PDL1 rispetto ai casi in cui tale espressione è assente, le linee guida raccomandano di limitare il trattamento ai soli casi con espressione di PDL1, adottando come cutoff il 5% dell’infiltrato tumorale nel caso di atezolizumab, e il CPS uguale o superiore a 10% nel caso di pembrolizumab.

In Italia, al momento, il pembrolizumab è rimborsato come trattamento di seconda linea, dopo fallimento di chemioterapia contenente platino.