Patologia genito-urinaria
Sabato, 25 Febbraio 2023

Si può STAR bene anche con una pausa terapeutica?

A cura di Massimo Di Maio

Lo studio STAR ha valutato il beneficio di una strategia di pausa terapeutica per i pazienti con tumore del rene trattati in prima linea con TKI: il razionale e l’obiettivo erano molto interessanti, il risultato non del tutto convincente… e nel frattempo lo scenario terapeutico è cambiato.

Brown JE, Royle KL, Gregory W, Ralph C, Maraveyas A, Din O, Eisen T, Nathan P, Powles T, Griffiths R, Jones R, Vasudev N, Wheater M, Hamid A, Waddell T, McMenemin R, Patel P, Larkin J, Faust G, Martin A, Swain J, Bestall J, McCabe C, Meads D, Goh V, Min Wah T, Brown J, Hewison J, Selby P, Collinson F; STAR Investigators. Temporary treatment cessation versus continuation of first-line tyrosine kinase inhibitor in patients with advanced clear cell renal cell carcinoma (STAR): an open-label, non-inferiority, randomised, controlled, phase 2/3 trial. Lancet Oncol. 2023 Feb 13:S1470-2045(22)00793-8. doi: 10.1016/S1470-2045(22)00793-8. Epub ahead of print. PMID: 36796394.

Quando il trattamento antitumorale prevede una somministrazione continuativa nel tempo (come nel caso di alcuni schemi di chemioterapia, oppure nel caso della grande maggioranza dei farmaci orali a bersaglio molecolare), è naturale ipotizzare che una pausa terapeutica possa associarsi a una riduzione delle tossicità e ad un beneficio in qualità di vita.

Naturalmente, l’interruzione del trattamento può potenzialmente comportare una progressione della malattia e una riduzione dell’efficacia terapeutica. Pertanto, l’approccio corretto per valutare il beneficio di tale strategia è la conduzione di uno studio di non inferiorità, che rassicuri sull’accettabile riduzione dell’efficacia e documenti un vantaggio in tossicità e qualità di vita.
Nel trattamento di prima linea del tumore del rene, fino alla recente introduzione delle combinazioni contenenti farmaci immunoterapici, la terapia standard è stata rappresentata da un inibitore di tirosino chinasi come agente singolo, come il sunitinib o il pazopanib.

Lo studio STAR di non inferiorità di fase II/III, condotto nel Regno Unito e finanziato dal UK National Institute for Health and Care Research, ha confrontato una strategia basata sulla pausa del trattamento rispetto alla strategia terapeutica standard basata sulla somministrazione continuativa.

Erano eleggibili pazienti affetti da tumore a cellule chiare del rene, con malattia in stadio avanzato, candidati a trattamento di prima linea, con un performance status conservato (ECOG 0 o 1).

Lo studio prevedeva la randomizzazione dei pazienti in rapporto 1:1 alle due strategie. La randomizzazione prevedeva la stratificazione per gruppo prognostico del Memorial Sloan Kettering Cancer Center, per sesso, per centro, per età, per stadio (malattia localmente avanzata o metastatica), per farmaco (sunitinib vs pazopanib) e per l’eventuale precedente nefrectomia.

Sia il sunitinib che il pazopanib sono stati somministrati a dosi standard, per un periodo iniziale di 24 settimane, dopo le quali i pazienti assegnati al braccio di controllo proseguivano il trattamento continuativo, mentre i pazienti assegnati al braccio sperimentale sospendevano il trattamento fino alla progressione di malattia, e in quel momento il trattamento veniva ripreso.

Lo studio aveva 2 co-primary endpoints: la sopravvivenza globale (overall survival, OS) e la qualità di vita, misurata mediante quality-adjusted life-years (QALYs).

Il protocollo predefiniva il criterio per la definizione di non inferiorità: il limite inferiore dell’intervallo di confidenza al 95% dell’hazard ratio per la sopravvivenza globale doveva essere pari o superiore a 0.812 (espresso come braccio di controllo vs braccio sperimentale), mentre il limite inferiore dell’intervallo di confidenza al 95% della differenza media di QALYs doveva essere pari o superiore a -0.156.

Il protocollo prevedeva la valutazione di entrambi gli endpoint co-primary nella popolazione intention to treat, vale a dire in tutti i pazienti randomizzati indipendentemente dal trattamento effettivamente ricevuto, e nella popolazione per protocol, vale a dire nei soli pazienti senza violazioni maggiori del protocollo e che avevano effettivamente iniziato il trattamento assegnato dalla randomizzazione. In accordo al protocollo, lo studio sarebbe stato definito positivo se entrambi gli endpoint, in entrambe le popolazioni ITT e per protocol, avessero soddisfatto la definizione di non inferiorità.

Lo studio è stato condotto tra il 2012 e il 2017, randomizzando 920 pazienti, dei quali 461 assegnati al braccio di controllo che prevedeva la continuazione del trattamento e 459 assegnati al braccio sperimentale che prevedeva la pausa. La maggior parte dei pazienti (73%) erano maschi.

Al momento del “bivio” imposto dalla randomizzazione (24 settimane), 488 pazienti erano in trattamento.

I risultati presentati nella pubblicazione si basano su un follow-up mediano di 58 mesi.

Per quanto riguarda l’OS, la non inferiorità è stata dimostrata nella popolazione intention to treat (hazard ratio 0.97, intervallo di confidenza al 95% 0.83 – 1.12] ma non nella popolazione per protocol (hazard ratio 0.94, intervallo di confidenza al 95% 0.80 – 1.09). Come detto nei metodi, il margine da non superare era 0.812

Per quanto riguarda la qualità di vita, la non inferiorità è stata dimostrata sia nella popolazione ITT che nella popolazione per protocol.

Il confronto tra i due gruppi in termini di incidenza di tossicità severe (grado 3 o peggiore) non evidenzia differenze rilevanti: l’incidenza di ipertensione, epatotossicità e fatigue severe è risultata sovrapponibile.

Sulla base dei risultati sopra sintetizzati, gli autori concludono che lo studio non ha potuto dimostrare la non inferiorità per i criteri predefiniti. Peraltro, anche se formalmente lo studio è negativo, il risultato è relativamente rassicurante per il trattamento sperimentale. La differenza in sopravvivenza globale appare modesta, e la negatività dello studio è legata al margine di non inferiorità non rispettato nella popolazione per protocol. Gli autori aprono quindi ad una possibile interpretazione positiva del risultato, dicendo che la strategia basata sulla pausa potrebbe essere fattibile e caratterizzata da un rapporto costo-efficacia favorevole.

Dal punto di vista del disegno, lo studio si basava su due endpoint co-primary, sopravvivenza e qualità di vita, entrambi necessari per interpretare positivamente lo studio. Peraltro, il confronto in termini di qualità di vita non puntava alla dimostrazione di superiorità per il trattamento sperimentale, ma alla dimostrazione di non inferiorità. Probabilmente, il risultato sarebbe stato più convincente dimostrando un chiaro beneficio soggettivo associato alla pausa terapeutica.

La scelta del margine di non inferiorità è sempre argomento di discussione sia in fase di disegno che di interpretazione del risultato: in questo caso, per l’OS gli autori avevano scelto un margine pari a 0.812 (HR del braccio di controllo vs sperimentale, che, ribaltato come viene più usualmente presentato, vuol dire circa 1.23 per il braccio sperimentale vs braccio di controllo). Vuol dire, in altre parole, che si era disposti ad accettare un peggioramento in OS fino al 23% circa con la pausa terapeutica. Si tratta di un margine perfettamente in linea con la maggior parte degli studi di non inferiorità, fermo restando che non esiste un valore sicuramente corretto, e che rimane una importante quota di soggettività sia nella scelta del margine che nell’interpretazione della sua rilevanza clinica.

Lo scenario terapeutico si è ora evoluto, rispetto agli anni di disegno e conduzione di questo studio. La maggior parte dei pazienti sono candidati a un trattamento di combinazione. Peraltro, soprattutto per quanto riguarda la componente TKI delle combinazioni, il razionale per un quesito come quello affrontato da questo studio inglese rimane in piedi, anche se i risultati dello studio STAR non appaiono del tutto convincenti.