Patologia mammaria
Martedì, 20 Giugno 2017

Trastuzumab e pertuzumab: affinità di coppia?

A cura di Fabio Puglisi

Dopo i risultati dello studio Neosphere nel setting neoadiuvante e dello studio Cleopatra nel setting avanzato, era grande l’attesa per lo studio Aphinity che propone l’impiego del pertuzumab nel trattamento adiuvante del carcinoma mammario HER2-positivo.
Aphinity richiama il termine affinità ma in questo caso l’intesa di coppia tra pertuzumab e trastuzumab non è stata così buona come ci si aspettava.

von Minckwitz G, et al. Adjuvant Pertuzumab and Trastuzumab in Early HER2-Positive Breast Cancer. N Engl J Med 2017  [Epub ahead of print] 

Lo studio Aphinity si interroga sul beneficio del pertuzumab in aggiunta al trastuzumab e alla chemioterapia in pazienti con carcinoma mammario HER2 positivo in stadio precoce.

Disegno dello studio: randomizzato, prospettico, multicentrico/internazionale (549 centri in 43 Paesi), in doppio cieco, placebo-controlled.

Criteri di eleggibilità:

  • diagnosi di carcinoma mammario HER2-positivo non metastatico, adeguatamente escisso;
  • stato linfonodale N+ o N0 se diametro tumorale > 1 cm. Inizialmente, pazienti con tumore tra 0.5 e 1 cm, N0 erano ugualmente eleggibili purché fosse presente almeno un altro fattore di rischio (grado 3, assenza di espressione dei recettori ormonali, età < 35 anni). Al fine di garantire un numero adeguato di casi con stato linfonodale positivo, dopo l’arruolamento di 3655 pazienti, lo studio è stato emendato per interrompere il reclutamento di donne con patologia N0;
  • intervallo tra chirurgia mammaria e prima dose di chemioterapia: entro 8 settimane;
  • frazione di eiezione ventricolare sn ≥ 55%;

Randomizzazione (1:1):

  • braccio sperimentale: chemioterapia* e 1 anno di trattamento anti-HER2 con trastuzumab (8 mg/kg come loading dose e, a seguire, 6 mg/kg ogni 3 settimane) e pertuzumab (840 mg come loading dose e, a seguire, 420 mg ogni 3 settimane);
  • braccio di controllo: chemioterapia* e 1 anno di trattamento anti-HER2 con trastuzumab (stesse dosi del braccio sperimentale) e placebo;

*regimi di chemioterapia possibili: 3 o 4 cicli (q21) di FEC o FAC, seguiti da 3 o 4 cicli (q21) di docetaxel o da 12 settimane di paclitaxel; 4 cicli (q21 o q14) di AC o EC, seguiti da 3 o 4 cicli (q21) di docetaxel o da 12 settimane di paclitaxel; 6 cicli (q21) di docetaxel/carboplatino.

Endpoint primario e analisi statistica:

  • Invasive disease–free survival, definito come il tempo dalla randomizzazione alla data di uno fra i seguenti eventi: recidiva locale invasiva, recidiva loco-regionale invasiva, recidiva a distanza, carcinoma invasivo controlaterale, morte per qualsiasi causa.
  • L’analisi primaria è basata sulla popolazione intention-to-treat. Lo studio è stato disegnato per avere una potenza dell’80% considerando un hazard ratio di 0.75 con un livello di significatività al 5% (test a due code). Partendo dai risultati dello studio BCIRG 006 come benchmark, sono stati ipotizzati tassi di invasive-disease–free survival a 3 anni dell’89.2% per il gruppo placebo e del 91.8% per il gruppo pertuzumab (379 eventi richiesti per l’analisi primaria).

Da novembre 2011 ad agosto 2013, un totale di 4805 pazienti sono state randomizzate a ricevere chemioterapia + trastuzumab + pertuzumab (N=2400) o chemioterapia + trastuzumab + placebo (N=2405).

Fra le caratteristiche principali della popolazione in studio, da notare uno stato linfonoale positivo nel 63% dei casi e uno stato recettoriale negativo nel 36% dei casi.
Per la popolazione intention-to-treat, il follow-up mediano è stato di 45.4 mesi.
Un anno di trattamento è stato completato dall’84.5% delle pazienti nel gruppo pertuzumab e dall’87.4% delle pazienti nel gruppo placebo. L’interruzione del trattamento per motivi di sicurezza/tollerabilità ha riguardato il 7.8% delle pazienti nel gruppo pertuzumab e il 6.4% delle pazienti nel gruppo placebo.

Efficacia
Nell’analisi dell’endpoint primario, l’aggiunta del pertuzumab ha determinato un incremento significativo dell’invasive disease–free survival rispetto al placebo. Il tasso a 3 anni di invasive-disease–free survival è stato del 94.1% con il pertuzumab e del 93.2% con il placebo (hazard ratio 0.81, 95% IC 0.66-1.00; P = 0.045).
Una recidiva a distanza quale primo evento, si è verificata in 112 pazienti (4.7%) con il pertuzumab e in 139 pazienti (5.8%) con il placebo. Complessivamente, le recidive viscerali o al sistema nervoso centrale sono state più comuni di quelle ossee, quale prima sede di localizzazione a distanza.
Una recidiva locoregionale ha riguardato 26 pazienti (1.1%) nel gruppo pertuzumab e 34 pazienti (1.4%) nel gruppo placebo.
Includendo le diagnosi di secondi primitivi non mammari nell’analisi della invasive disease–free survival, sono stati registrati 189 eventi nel gruppo pertuzumab e 230 nel gruppo placebo (hazard ratio 0.82; 95% IC 0.68-0.99; P = 0.04).
L’effetto del pertuzumab sull’endpoint primario è risultato omogeneo tra i diversi sottogruppi. Un minor numero di eventi è stato osservato fra le pazienti con stato linfonodale negativo (3.6% con il pertuzumab e 3.2% con il placebo). In tale sottogruppo non è stato possibile evidenziare differenze significative tra i due bracci di trattamento (hazard ratio 1.13; 95% IC, 0.68-1.86; P = 0.64).
Viceversa, nella coorte con linfonodi positivi, il 9.2% delle pazienti trattate con pertuzumab e il 12.1% delle pazienti trattate con placebo hanno sperimentato un evento (tasso di invasive disease–free survival a 3 anni, rispettivamente del 92.0% e del 90.2%; hazard ratio 0.77; 95% IC, 0.62-0.96; P = 0.02).
Nei casi con recettori ormonali negativi, l’8.2% delle pazienti trattate con pertuzumab e il 10.6% delle pazienti trattate con placebo hanno avuto un evento (hazard ratio 0.76, 95% IC 0.56-1.04; P = 0.08); 
Nei casi con recettori ormonali positivi, il 6.5% delle pazienti trattate con pertuzumab e il 7.7% delle pazienti trattate con placebo hanno avuto un evento (hazard ratio 0.86, 95% IC 0.66-1.13; P=0.28);

Effetti collaterali
La tossicità cardiaca è stata infrequente in entrambi i bracci di trattamento. La diarrea di grado ≥ 3 si è verificata maggiormente durante la chemioterapia e con il pertuzumab rispetto al placebo (9.8% vs. 3.7%).

Formalmente lo studio APHINITY è un trial positivo. Tuttavia, dal punto di vista del beneficio clinico, i risultati hanno deluso le attese basate sui presupposti delle performance nel setting neoadiuvante (studio Neosphere) e nel trattamento della malattia avanzata (studio Cleopatra).

L’aggiunta del pertuzumab al trattamento chemioterapico e al trastuzumab è risultata in una riduzione assoluta del rischio di evento (recidiva o morte) pari allo 0.9% a 3 anni. Sebbene il beneficio assoluto sia stato più grande nelle pazienti con stato linfonodale positivo (1.8%), l’entità dello stesso è apparsa inferiore rispetto alle attese.

Nel cercare di fornire una spiegazione per risultati non proprio entusiasmanti (ndr. lo studio Cleopatra ci aveva abituati male) è stato invocato il breve periodo di osservazione. Tuttavia, follow-up più lunghi come quelli riportati negli studi N9831 e B-31 suggeriscono che il beneficio dal trattamento anti-HER2 è generalmente maggiore nel prevenire le recidive precoci. Sembra pertanto improbabile che i risultati dell’APHINITY possano cambiare radicalmente con la maturazione dello studio.

Ad oggi, qualunque sia la motivazione che sta dietro alla performance del pertuzumab, l’impiego in terapia adiuvante potrebbe essere giustificato nelle situazioni a maggior rischio di recidiva definite per lo più sulla base dello stato linfonodale.

L’APHINITY verosimilmente decreta la fine di una generazione di trial in cui si è ragionato in termini di aggiunta (lapatinib + trastuzumab, pertuzumab + trastuzumab) e di reclutamento non selettivo. La strategia del potenziamento terapeutico non ha pagato, anzi. Ha portato con sé un inevitabile incremento delle tossicità e dei costi, rischiando di esporre molti per generare un beneficio a pochi.
Un cambio di rotta è quindi necessario e, ancora una volta, il modello neoadiuvante con l’affiancamento di una buona ricerca traslazionale appare una possibile soluzione metodologica.