Patologia polmonare
Sabato, 05 Febbraio 2022

…e se l’efficacia dell’immunoterapia dipendesse dai batteri che abbiamo in pancia? (parte seconda)

A cura di Massimo Di Maio

La presenza del batterio Akkermansia muciniphila nelle feci dei pazienti trattati con immunoterapia per un tumore del polmone risulta associata a un miglior outcome, ma l’interpretazione dei dati è molto complessa: conta non solo la presenza ma anche la quantità, e probabilmente l’equilibrio tra più specie batteriche.

Derosa L, Routy B, Thomas AM, Iebba V, Zalcman G, Friard S, Mazieres J, Audigier-Valette C, Moro-Sibilot D, Goldwasser F, Silva CAC, Terrisse S, Bonvalet M, Scherpereel A, Pegliasco H, Richard C, Ghiringhelli F, Elkrief A, Desilets A, Blanc-Durand F, Cumbo F, Blanco A, Boidot R, Chevrier S, Daillère R, Kroemer G, Alla L, Pons N, Le Chatelier E, Galleron N, Roume H, Dubuisson A, Bouchard N, Messaoudene M, Drubay D, Deutsch E, Barlesi F, Planchard D, Segata N, Martinez S, Zitvogel L, Soria JC, Besse B. Intestinal Akkermansia muciniphila predicts clinical response to PD-1 blockade in patients with advanced non-small-cell lung cancer. Nat Med. 2022 Feb 3. doi: 10.1038/s41591-021-01655-5. Epub ahead of print. PMID: 35115705.

Si stima che il microbiota intestinale sia composto da oltre 100 trilioni di microrganismi, vale a dire un numero circa 10 volte superiore a quello delle cellule che compongono il corpo umano. L’eubiosi è una condizione di equilibrio del microbiota, fondamentale per garantire un normale funzionamento di tutto l’organismo, mentre le alterazioni dell’equilibrio (disbiosi) sono coinvolte nell’insorgenza di numerose patologie, compresi i tumori.

E’ ormai ben noto che il microbiota intestinale interagisce con il sistema immunitario dell’ospite, favorendo un microambiente pro-infiammatorio e immunosoppressivo. Recenti evidenze scientifiche hanno inoltre suggerito che il microbiota intestinale possa modulare la risposta all’immunoterapia o anche il rischio di tossicità immuno-relata. A loro volta, le terapie antitumorali sono in grado di alterare il microbiota intestinale, sia inducendo direttamente disbiosi, sia influenzando lo stato infiammatorio locale e sistemico.

Negli ultimi anni, molti gruppi si sono dedicati allo studio del microbiota intestinale, ipotizzando che la sua composizione, o la presenza o assenza di specifiche specie batteriche, possano rappresentare possibili fattori predittivi dell’efficacia dell’immunoterapia. Questi ultimi sono particolarmente importanti, in quanto attualmente siamo molto lontani, nella pratica clinica, dalla selezione ottimale dei pazienti che possano beneficiarsi del trattamento immunoterapico. Nel tumore del polmone non a piccole cellule (non-small cell lung cancer, NSCLC) l’espressione di PD-L1 è sicuramente un importante fattore predittivo, in quanto il suo livello >50% rappresenta un criterio per selezionare pazienti candidati a ricevere un trattamento di prima linea di sola immunoterapia senza chemioterapia, mentre la terapia di combinazione è lo standard riconosciuto per i casi con espressione di PD-L1 assente o inferiore al 50%. Tuttavia, il ruolo predittivo di PD-L1 non è ottimale, e quindi l’identificazione di altri fattori predittivi positivi o negativi aiuterebbe molto a migliorare la selezione dei pazienti.

In aggiunta, il microbiota intestinale è potenzialmente modificabile, e quindi oltre a rappresentare un fattore predittivo potrebbe anche rappresentare un potenziale target per migliorare l’outcome dei pazienti sottoposti a trattamento immunoterapico.

Tra i ricercatori che si sono distinti, negli ultimi anni, per gli studi sull’argomento, sicuramente c’è Lisa Derosa, nostra connazionale attualmente a Parigi. Un precedente lavoro del gruppo (commentato nel 2017 da Oncotwitting: https://www.oncotwitting.it/immunoterapia/e-se-l-efficacia-dell-immunoterapia-dipendesse-dai-batteri-che-abbiamo-in-pancia#top_tab_acc2), basato su un’analisi retrospettiva di pazienti con tumore del polmone e del rene trattati con immunoterapia, aveva suggerito un’associazione tra la presenza del batterio Akkermansia muciniphila (Akk) nelle feci e un migliore outcome clinico.

Lo studio di validazione, pubblicato all’inizio di febbraio 2022 sulla prestigiosa rivista Nature Medicine, è stato condotto su 338 pazienti con NSCLC avanzato trattati con inibitore del checkpoint immunitario in prima linea o in pazienti petrattati.

Obiettivo dello studio era la validazione del ruolo predittivo della presenza di Akkermansia nelle feci.

Endpoint erano la proporzione di risposte obiettive (objective response rate, ORR) e la sopravvivenza globale (overall survival, OS). Gli autori hanno condotto analisi multivariate includendo fattori prognostici e predittivi rilevanti, come l’espressione di PD-L1, l’impiego di antibiotici, il performance status del paziente.

Akkermansia è stata trovata nelle feci del 39% dei pazienti prima dell’inizio del trattamento immunoterapico, mentre è risultata assente nel 61% dei casi. I 2 gruppi di pazienti non differivano significativamente per il precedente impiego di antibiotici, né per il tipo di antibiotici ricevuti.

La presenza nelle feci di Akkermansia muciniphila è risultata associata ad una maggiore probabilità di risposta obiettiva con il trattamento immunoterapico, nonché ad una migliore sopravvivenza globale.

Nel dettaglio, la proporzione di risposte obiettive è risultata pari al 28% nel gruppo Akk+ e pari al 18% nel gruppo Akk-. Limitando l’analisi ai pazienti trattati in prima linea, la proporzione di risposte obiettive è risultata pari al 41% e al 19%, rispettivamente.

Nella casistica complessiva, la sopravvivenza mediana è risultata pari a 18.8 mesi nel gruppo Akk+ e a 15.4 mesi nel gruppo Akk– (hazard ratio 0.72; intervallo di confidenza al 95% 0.73–1.62; p=0.03.

Nel gruppo di pazienti che hanno ricevuto immunoterapia come trattamento di seconda linea o successiva, la sopravvivenza mediana è risultata pari a 18.8 mesi nel gruppo Akk+ rispetto a 13.4 mesi nel gruppo Akk– (Hazard Ratio 0.70; intervallo di confidenza al 95% 0.50–0.98; p=0.04).

Nel gruppo di pazienti che hanno ricevuto immunoterapia come trattamento di prima linea, la probabilità di sopravvivenza a 12 mesi è risultata pari al 59% nel gruppo di pazienti Akk+, rispetto al 35% nel gruppo di pazienti Akk-.

L’analisi multivariata ha confermato la suddetta associazione, indipendente rispetto all’espressione di PD-L1, all’impiego di antibiotici, al performance status del paziente.

La presenza nell’intestino di Akkermansia muciniphila è risultata associata ad una diversa presenza di altre specie batteriche, alcune più rappresentate nei casi Akk+, altre più presenti nei casi Akk-.

In aggiunta alla classificazione dicotomica dei casi tra Akk+ e Akk-, la prognosi dei pazienti è risultata significativamente diversa, nell’ambito dei casi Akk+, in base all’abbondanza relativa del batterio rispetto alle altre specie. Con un risultato solo apparentemente in contraddizione rispetto a quello riassunto sopra, i casi con elevata presenza di Akk (Akk high) hanno un outcome peggiore rispetto ai casi con bassa presenza di Akk (Akk low). Questi ultimi hanno evidenziato una sopravvivenza migliore sia rispetto ai casi senza Akk sia rispetto ai casi con elevata presenza di Akk.

Sulla base dei risultati sopra sintetizzati, gli autori ipotizzano che il ruolo predittivo di Akkermansia rispetto all’efficacia dell’immunoterapia nei pazienti con tumore del polmone possa essere legato non tanto alla sua presenza / assenza (distinzione dicotomica tra Akk+ e Akk-), quanto alla sua “quantità” relativa alle altre specie batteriche, in una distinzione “tripartita” tra Akk-, Akk low e Akk high.

La lettura del lavoro pubblicato su Nature Medicine evidenzia quanto sia complesso il tentativo di mettere ordine in questo campo. Naturalmente, questi risultati non sono direttamente applicabili nella pratica clinica, ma rappresentano un importante passo avanti in un campo affascinante, nonché un invito a proseguire gli studi in un campo che si conferma promettente per le possibili ricadute terapeutiche.

Gli autori riconoscono i principali limiti del lavoro, tra cui:
- L’analisi è condotta su pazienti trattati con immunoterapia da sola e non con le combinazioni di chemio-immunoterapia, che oggi rappresentano lo standard per tutti i pazienti con espressione di PD-L1 inferiore al 50%.
- Il tumor mutational burden, che numerosi studi hanno proposto come fattore predittivo dell’efficacia dell’immunoterapia, sebbene non ottimale, non è stato considerato nell’analisi.

Di fatto, pur con tutti gli aspetti ancora da chiarire, il fatto che all’analisi multivariata la presenza di un batterio nelle feci appaia essere un fattore predittivo più forte del PD-L1 rispetto all’efficacia dell’immunoterapia la dice lunga sull’importanza potenziale di questi studi.