Patologia polmonare
Sabato, 25 Giugno 2022

Quando il tumore del polmone può essere trattato con una compressa: comunicazione medico-paziente, tra entusiasmo e punti deboli…

A cura di Massimo Di Maio

Un'interessante pubblicazione del gruppo di Boston ha analizzato, grazie ad interviste condotte con pazienti, caregiver e oncologi, vari aspetti legati alla comunicazione tra medico e paziente nei casi di NSCLC avanzato oncogene-addicted. Un setting che vanta enormi progressi, ma nella comunicazione non tutto è ottimale…

Petrillo LA, Shimer SE, Zhou AZ, Sommer RK, Feldman JE, Hsu KE, Greer JA, Traeger LN, Temel JS. Prognostic communication about lung cancer in the precision oncology era: A multiple-perspective qualitative study. Cancer. 2022 Jun 22. doi: 10.1002/cncr.34369. Epub ahead of print. PMID: 35731234.

Negli ultimi anni, la prospettiva di trattamento e le chance di controllo di malattia, per molti casi di pazienti affetti da tumore del polmone non a piccole cellule (NSCLC) avanzato caratterizzato da una alterazione molecolare che configura oncogene-addiction e li rende eleggibili per un trattamento a bersaglio molecolare, sono cambiati in maniera radicale.

Questi progressi indubbiamente rilevanti hanno reso, per molti aspetti, più semplice la comunicazione con i pazienti al momento dell’inizio del trattamento per la malattia avanzata. Fino a qualche lustro fa, non c’erano alternative più efficaci della chemioterapia, l’aspettativa di vita mediana non superava i 12 mesi, ed era veramente difficile che la comunicazione tra medico e paziente, al momento della diagnosi e dell’inizio della terapia, potesse assumere toni troppo ottimistici. Oggi, essendoci la disponibilità di farmaci attivi in una percentuale rilevante, a volte molto alta, dei casi, il rischio è che la comunicazione sia fin troppo ottimistica, enfatizzando molto le chance di beneficio dal trattamento e “mettendo in secondo piano” l’impossibilità di guarire la malattia e le possibilità che i trattamenti possano non funzionare o comunque smettere di funzionare dopo un periodo di controllo più o meno lungo.

E’ esperienza comune che il riscontro di una mutazione di EGFR, o un’alterazione di ALK nelle analisi molecolari di caratterizzazione di un caso di NSCLC avanzato sia comunicato al paziente quasi come una “fortuna” rispetto alla necessità di scegliere un trattamento endovenoso, sia esso chemioterapico o immunoterapico.

Per descrivere le problematiche comunicative in questo ambito, gli autori del lavoro recentemente pubblicato su Cancer hanno condotto uno studio qualitativo, conducendo interviste con pazienti, caregivers e oncologi.

Lo studio è stato basato sulla conduzione di interviste semistrutturate con pazienti e caregivers, nonché sulla conduzione di focus groups e interviste con oncologi, incentrate sull’esperienza relativa alla comunicazione riguardo la malattia, le chance di beneficio attese con il trattamento, i rischi di un andamento sfavorvole, in generale riguardo alla prognosi.

Lo studio ha previsto anche la registrazione di una visita con ciascuno dei pazienti inclusi nello studio.

Le interviste sono state trascritte, e i contenuti analizzati nel dettaglio.

L’analisi, condotta al Massachusetts General Hospital nel 2020, ha incluso 39 pazienti, 14 caregivers e 10 oncologi.
I contenuti delle interviste hanno consentito l’identificazione di 6 temi:

  1. I pazienti con tumore del polmone caratterizzato da alterazioni molecolari “targetable” hanno percezione di essere un gruppo “separato” (per motivi biologici, clinici, prognostici) rispetto al resto della comunità di pazienti con tumore del polmone. Negli ultimi anni si sono creati gruppi di advocacy dedicati, siti di informazione dedicati.
  2. Nella comunicazione tra medico e paziente, spesso in caso di malattia oncogene-addicted gli oncologi enfatizzano grandi benefici e grandi aspettative dalla terapia target, in qualche caso sovrastimando le chance di controllo di malattia e “omettendo” le problematiche relative alla prognosi complessiva e alla possibilità che la malattia diventi resistente al trattamento.
  3. A volte la discussione relativa ai trattamenti e alla prognosi complessiva è complicata dall’incertezza relativa alla disponibilità nella pratica clinica di nuove terapie. Da una parte, l’oncologo può prospettare la fiducia nella futura disponibilità di nuovi farmaci, dall’altra la mancata disponibilità di trattamenti di già provata efficacia può rendere frustrante la comunicazione.
  4. Le preferenze relative all’informazione da parte di pazienti e caregivers possono essere variabili. E’ importante che la comunicazione sia “regolata” sulla base di quanto il paziente desidera sapere relativamente alla malattia, agli aspetti tecnici del trattamento, ai dettagli relativi all’attività e all’efficacia dei farmaci.
  5. Molte volte, anche nei casi in cui la malattia sia controllata dal trattamento, la presenza di sintomi o la discussione degli esami di ristadiazione può rappresentare un momento di grande ansia per il paziente. A volte la comunicazione relativa agli effetti collaterali del trattamento può essere subottimale, sia per “colpa” dei medici sia perché i pazienti possono non riferire adeguatamente gli eventi avversi, ritenendoli non evitabili o addirittura temendo che la loro presenza possa pregiudicare la prosecuzione della terapia “salvavita”.
  6. I pazienti manifestano elevate aspettative sulla terapia target che ricevono, e questo in molti casi può indurre scarsa consapevolezza della prognosi complessiva, e impreparazione relativamente al momento del fallimento delle terapie e della necessità di interrompere i trattamenti attivi per le cure palliative.

Sono tanti gli spunti interessanti che offre la lettura dello studio condotto dal gruppo di Jennifer Temel. Va precisato che si tratta di un’analisi condotta su un numero limitato di pazienti, nonché su un numero limitato - e non necessariamente rappresentativo - di oncologi.

Il problema dell’eccessiva enfasi sull’efficacia dei trattamenti fa riflettere. Vista l’innovazione rappresentata dai farmaci a bersaglio molecolare, è ragionevole l’ottimismo nel discutere la possibilità che la malattia sia controllata, ma questo può portare a una scarsa percezione da parte del paziente della prognosi e del fatto che, dopo un periodo di tempo più o meno lungo, la malattia diventerà resistente al trattamento e le opzioni efficaci potrebbero essere limitate.

Avendo come riferimento l’efficacia storicamente limitata della chemioterapia, caratterizzata peraltro da una tossicità non trascurabile anche nell’immaginario collettivo dei non addetti ai lavori, la possibilità di prescrivere un farmaco orale, ritenuto mediamente più attivo e meno tossico della chemio, può portare in assoluta buona fede gli oncologi ad una comunicazione subottimale, sia sulla prognosi che sui rischi legati al trattamento.

Quando si parla di farmaci associati a una elevata percentuale di risposte, con una durata mediana della risposta spesso di uno o più anni, bisogna sicuramente enfatizzare questi risultati in termini ottimistici, ma non dimenticare di contestualizzarli rispetto al rischio di resistenza e alle limitate possibilità di trattamento in caso di esaurimento delle opzioni a bersaglio molecolare.

Fiducia, ottimismo e speranza meritano un grande spazio nella comunicazione, specialmente in setting clinici caratterizzati da indiscutibili progressi, ma devono essere sempre accompagnati da equilibrio e prudenza, che dovrebbero essere i principi a cui ispirare la comunicazione con i pazienti e con i loro cari.