Patologia polmonare
Giovedì, 06 Luglio 2023

Test sul sangue per fare una diagnosi di tumore: in futuro sarà realtà?

A cura di Massimo Di Maio

Lancet Oncology pubblica gli interessanti risultati di uno studio che, con un approccio osservazionale, ha valutato la performance di un test molecolare su sangue periferico in pazienti in cui i sintomi imponevano di escludere la presenza di un tumore. L’applicazione di tali test è affascinante e la tecnologia promette progressi, ma al momento appare lontana dall’applicabilità clinica.

Nicholson BD, Oke J, Virdee PS et al. Multi-cancer early detection test in symptomatic patients referred for cancer investigation in England and Wales (SYMPLIFY): a large-scale, observational cohort study. Lancet Oncol. 2023; (published online June 20.) https://doi.org/10.1016/S1470-2045(23)00277-2

Nell’attuale pratica clinica, la fase diagnostica per i pazienti con sospetta neoplasia si basa su esami strumentali tradizionali e sull’eventuale biopsia di lesioni sospette. Negli ultimi anni, la cosiddetta “biopsia liquida”, ovvero l’esame del DNA tumorale circolante nel sangue periferico, sta acquistando crescente importanza in alcuni contesti clinici, ma non ancora nella fase diagnostica.

Tra i vari test attualmente in sviluppo, il test MCED (methylation-based multicancer early detection) è stato sviluppato per essere applicato a pazienti che inizino l’iter diagnostico di approfondimento di sintomi compatibili con alcuni tipi di tumore.

Lo studio prospettico, multicentrico osservazionale pubblicato a giugno 2023 su Lancet Oncology è stato condotto in centri afferenti al Servizio Sanitario Nazionale britannico in Inghilterra e Galles.

Lo studio prevedeva l’inclusione di pazienti adulti (di età superiore a 18 anni), con sintomi non specifici o con sintomi sospetti per tumori ginecologici, polmonari o del tratto gastrointestinale (sia superiore che inferiore). Lo studio aveva una natura osservazionale. In altre parole, i pazienti ricevevano le procedure come da normale pratica clinica, e in aggiunta il protocollo prevedeva un prelievo di sangue periferico su cui veniva condotto il test MCED, allo scopo di confrontarne il risultato rispetto all’esito delle procedure diagnostiche standard. A tale scopo, lo studio prevedeva un follow-up fino al completamento della fase diagnostica o comunque fino a 9 mesi.

Per evitare bias, l’analisi sul sangue periferico è stata condotta in cieco rispetto alla diagnostica tradizionale.

Gli endpoint erano:

  • Il valore predittivo positivo del test, vale a dire la proporzione di veri positivi (test positivo con diagnosi tradizionale di tumore) sul totale dei positivi al test;
  • Il valore predittivo negativo del test, vale a dire la proporzione di veri negativi (test negativo con diagnostica tradizionale negativa per tumore) sul totale dei negativi al test;
  • La sensibilità del test, vale a dire la proporzione di veri positivi sul totale dei casi positivi alla diagnostica tradizionale (veri positivi + falsi negativi);
  • La specificità del test, vale a dire la proporzione di veri negativi sul totale dei casi negativi alla diagnostica tradizionale (veri negativi + falsi positivi).

Complessivamente, lo studio ha incluso 6238 pazienti tra il 7 luglio e il 30 novembre 2021, in 44 centri britannici.

Il numero di pazienti eleggibili è stato inferiore, in quanto 387 pazienti sono stati esclusi per problemi di campionamento del sangue periferico o per ritiro del consenso. Sui rimanenti 5851 pazienti, il test non è stato informative in 376, mentre in 14 casi non era disponibile l’informazione sulla diagnosi clinica, quindi il numero totale di pazienti analizzabili è risultato pari a 5461.
368 pazienti (pari al 6.7%) ha concluso l’iter diagnostico tradizionale con una diagnosi di cancro, a differenza dei restanti 5093 (pari al 93.3%).

Il test MCED ha prodotto un risultato diagnostico per cancro in 323 casi. Di questi, 244 pazienti hanno effettivamente ricevuto una diagnosi clinica di cancro, per un valore predittivo del test pari al 75.5% (intervallo di confidenza al 95% 70.5% - 80.1%). In altre parole, il 24.5% dei casi positivi al test in realtà non avrebbe poi ricevuto una diagnosi clinica di tumore.

Gli altri parametri relativi alla performance del test sono stati:

  • Valore predittivo negativo pari al 97.6% (intervallo di confidenza al 95% 97.1% – 98.0%). Sul totale dei test negativi, quindi, il 2.4% dei casi sarebbe stato falsamente rassicurato, in quanto la diagnostica tradizionale si è conclusa con una diagnosi di cancro.
  • Sensibilità del 66.3% (intervallo di confidenza al 95% 61.2% – 71.1%). Questo vuol dire che il 33.7% dei pazienti in cui effettivamente i sintomi erano dovuti a un tumore ha avuto un risultato falso negativo al test.
  • Specificità del 98.4% (intervallo di confidenza al 95% 98.1% - 98.8%). Questo vuol dire che l’1.6% dei pazienti in cui i sintomi non erano dovuti a un tumore ha avuto un risultato falso positivo con il test.

La sensibilità del test è risultata progressivamente crescente con l’età e con lo stadio di malattia: nel dettaglio, il test è sensibile nel 24.2% dei casi in stadio I e nel 95.3% dei casi in stadio IV.

Nei pazienti con diagnosi di tumore, nei quali il test ha prodotto un risultato positivo, il test si è rivelato accurato nel predire la sede di origine del tumore nell’85.2% dei casi.
La sensibilità e il valore predittivo negativo del test sono risultati particolarmente elevati nei casi in cui i sintomi suggerivano una origine a partire dal tratto gastrointestinale superiore.

Sulla base dei dati sopra riassunti, gli autori sottolineano che lo studio presentato rappresenta la prima valutazione prospettica di un test diagnostico MCED in una popolazione sintomatica in cui la clinica impone di escludere un sospetto di tumore. Naturalmente, i dati sono promettenti ma lontani dal produrre evidenza sufficiente per un impiego di test del genere nella pratica clinica.

Nello studio, l’esecuzione del test era condotta in parallelo rispetto alla diagnostica tradizionale, senza nessun intento “interventistico” e con un approccio puramente osservazionale. Cosa sarebbe successo se il test fosse stato condotto in alternativa rispetto alla diagnostica tradizionale? Circa un terzo dei pazienti che avevano un tumore sarebbero stati falsamente rassicurati da un test negativo e avrebbero avuto un ritardo diagnostico, se la negatività del test avesse fermato o rallentato l’esecuzione della diagnostica tradizionale.

Interessante il dato relativo all’associazione tra lo stadio di malattia e la sensibilità, molto alta per i pazienti con malattia metastatica. D’altra parte, la scarsa sensibilità negli stadi iniziali implicherebbe un ritardo diagnostico proprio negli stadi in cui la tempestività della diagnosi, potenzialmente associata a una maggiore chance di guarigione, è particolarmente importante.

Giustamente, gli autori sottolineano che la performance del test è stata descritta rispetto agli esami della routine clinica standard, che ovviamente non ha una sensibilità del 100%, quindi alcuni casi ufficialmente considerati “falsi positivi” al test potrebbero in realtà rappresentare dei “falsi negativi” della diagnostica tradizionale. Peraltro, è giusto misurare la performance del test rispetto al gold standard attuale.

In conclusione, gli autori ritengono questi risultati promettenti per condurre uno studio interventistico. L’auspicio è che l’accuratezza e la sensibilità del test possano migliorare, perché questo significherebbe una concreta possibilità di impiego nella pratica clinica. Con l’accuratezza attuale, un test positivo significherebbe l’indicazione ad accelerare l’esecuzione della diagnostica tradizionale, ma un test negativo non autorizzerebbe a fermarsi, di fronte alla presenza di sintomi clinici che potrebbero essere realmente la spia di un tumore.

Al momento, in sintesi, l’applicabilità di questi risultati è abbastanza lontana dalla routine clinica.