Immunoterapia
Sabato, 17 Settembre 2022

“Terapia adiuvante” per il tumore del polmone: non significherà più soltanto chemio (parte seconda)

A cura di Massimo Di Maio

Aumentano i dati relativi all’efficacia dell’immunoterapia negli stadi precoci. Dopo i risultati ottenuti con atezolizumab, anche il pembrolizumab dimostra un beneficio significativo in sopravvivenza libera da malattia come terapia adiuvante dei casi di tumore del polmone non a piccole cellule, dopo chirurgia ed eventuale chemioterapia standard.

O'Brien M, Paz-Ares L, Marreaud S, Dafni U, Oselin K, Havel L, Esteban E, Isla D, Martinez-Marti A, Faehling M, Tsuboi M, Lee JS, Nakagawa K, Yang J, Samkari A, Keller SM, Mauer M, Jha N, Stahel R, Besse B, Peters S; EORTC-1416-LCG/ETOP 8-15 – PEARLS/KEYNOTE-091 Investigators. Pembrolizumab versus placebo as adjuvant therapy for completely resected stage IB-IIIA non-small-cell lung cancer (PEARLS/KEYNOTE-091): an interim analysis of a randomised, triple-blind, phase 3 trial. Lancet Oncol. 2022 Sep 9:S1470-2045(22)00518-6. doi: 10.1016/S1470-2045(22)00518-6. Epub ahead of print. PMID: 36108662.

Negli ultimi anni, l’immunoterapia con inibitori del checkpoint immunitario ha profondamente modificato l’algoritmo terapeutico del tumore del polmone non a piccole cellule (non-small-cell lung cancer, NSCLC) in stadio avanzato. La dimostrazione di efficacia di durvalumab come terapia di consolidamento dopo chemio-radioterapia ha anche sancito l’ingresso dell’immunoterapia nel trattamento standard della malattia localmente avanzata.

Come accaduto in altre neoplasie e per altre categorie di farmaci, alla dimostrazione di efficacia negli stadi avanzati segue la sperimentazione negli stadi precoci. Per anni, il trattamento standard del NSCLC operabile è stato rappresentato dalla chirurgia seguita da trattamento chemioterapico adiuvante con una combinazione a base di cisplatino. Recentemente, lo studio ADAURA ha evidenziato l’efficacia dell’osimertinib nel prolungare in maniera marcata la disease-free survival, nei casi caratterizzati da mutazione di EGFR, dopo la chirurgia e l’eventuale trattamento chemioterapico standard. Parallelamente, atezolizumab è stato il primo farmaco immunoterapico a produrre dati di efficacia nel setting adiuvante, come commentato su Oncotwitting circa un anno fa ( https://www.oncotwitting.it/patologia-polmonare/terapia-adiuvante-per-il-tumore-del-polmone-non-significhera-piu-soltanto-chemio#top_tab_acc2)

In questo scenario, si inseriscono i risultati dello studio PEARLS / KEYNOTE-091, recentemente pubblicati su Lancet Oncology. Lo studio ha valutato l’impiego dell’anticorpo anti-PD1 pembrolizumab come trattamento adiuvante nei casi di tumore del polmone NSCLC in stadio IB-IIIA sottoposti a resezione completa.
Si tratta di uno studio randomizzato, in cieco, di fase III, che ha visto l’arruolamento dei pazienti in 196 centri di 29 nazioni.

I pazienti eleggibili avevano diagnosi di NSCLC in stadio IB (tumore con diametro maggiore di 4 cm), II o IIIA, senza restrizioni basate sull’istologia o sul livello di espressione di PDL1, con un performance status pari a 0 o 1. I pazienti dovevano ricevere chemioterapia sulla base delle linee guida standard (quindi non obbligatoria per lo stadio IB e fortemente raccomandata per gli stadi II e IIIA).

I pazienti sono stati randomizzati, stratificando per stadio, precedente chemioterapia adiuvante, livello di espressione di PDL1 e area geografica:

  • i pazienti assegnati al braccio sperimentale hanno ricevuto pembrolizumab alla dose standard di 200 mg, ogni 3 settimane, per un massimo di 18 cicli.
  • I pazienti assegnati al braccio di controllo hanno ricevuto placebo.

Lo studio aveva un duplice endpoint primario: la disease-free survival (DFS, sopravvivenza libera da malattia) nella popolazione generale e la DFS nella popolazione di pazienti con PDL1 TPS (tumor proportion score) pari o superiore al 50%.

Il piano statistico dello studio prevedeva la conduzione di analisi ad interim, a tempi prespecificati corrispondenti a un determinato numero di eventi per l’analisi, e la pubblicazione di Lancet Oncology riporta I risultati della seconda analisi ad interim.

Lo studio ha visto la randomizzazione di 1177 pazienti, dei quali 590 sono stati assegnati a pembrolizumab e 587 a placebo. Rispettivamente, i pazienti con espressione elevata di PDL1 sono stati 168 e 165 nei 2 bracci.

L’analisi ad interim presentata nella pubblicazione è stata condotta dopo un follow-up mediano di 35.6 mesi.

La DFS mediana è risultata pari a 53.6 mesi (intervallo di confidenza al 95% 39.2 – non raggiunto) nel braccio sperimentale trattato con pembrolizumab, e pari a 42.0 mesi (intervallo di confidenza al 95% 31.3 – non raggiunto) nel braccio di controllo con placebo (hazard ratio 0.76 , intervallo di confidenza al 95% 0.63 – 0.91, p=0.0014).

Nel sottogruppo di casi con espressione elevata di PDL1, la DFS mediana non è stata ancora raggiunta né nel braccio sperimentale trattato con pembrolizumab (intervallo di confidenza al 95% 44.3 – non raggiunto), né nel braccio di controllo (intervallo di confidenza al 95% 35.8 – non raggiunto) (hazard ratio 0.82 , intervallo di confidenza al 95% 0.57 – 1.18, p=0.14).

L'analisi di sopravvivenza globale, endpoint secondario, è ancora immatura (meno del 20% di eventi nei 2 bracci) e non ha evidenziato differenze statisticamente significative.

Il profilo di tollerabilità è stato coerente con la tossicità attesa del pembrolizumab in monoterapia. Eventi avversi di grado 3 o peggiore sono stati riportati nel 34% dei pazienti del braccio sperimentale, rispetto al 26% dei pazienti nel braccio di controllo. Eventi avversi seri sono stati registrati nel 24% e 15% dei casi rispettivamente. Eventi avversi legati al trattamento sono risultati letali nell’1% dei pazienti assegnati al braccio sperimentale (un caso di shock cardiogeno e miocardite, un caso di shock settico e miocardite, un caso di polmonite e un caso di morte improvvisa), a fronte di nessun caso nel braccio di controllo assegnato a placebo.

Sulla base dei risultati sopra sintetizzati, gli autori propongono il pembrolizumab come un potenziale nuovo trattamento per i casi di NSCLC in stadio iniziale (IB – IIIA) sottoposti a chirurgia e ad eventuale chemioterapia adiuvante.

Come molti studi condotti negli ultimi anni con l’immunoterapia, lo studio prevedeva due endpoint primari, vale a dire la DFS nella popolazione complessiva (al momento soddisfatto) e la DFS nella popolazione di casi con PDL1 elevato (al momento non significativa). L’analisi condotta nel sottogruppo di casi con elevata espressione di PDL1, con la potenza raggiunta al momento dell’analisi ad interim, non ha evidenziato un vantaggio significativo nel sottogruppo, a dispetto dell’ipotesi che quel gruppo di pazienti possa ottenere un beneficio anche maggiore rispetto alla popolazione complessiva. Peraltro, come accade quasi spesso in questi studi, i due endpoint primari non erano “coprimary” (nel qual caso entrambe le analisi avrebbero dovuto essere positive per poter giudicare positivo lo studio) ma “dual” (in altre parole, con la dovuta correzione della soglia di significatività statistica a causa della molteplicità dei test, anche uno solo dei due confronti programmati poteva essere positivo per giudicare positivo lo studio). Per questo aspetto metodologico rimandiamo alla revisione di letteratura commentata tempo fa su Oncotwitting. https://www.oncotwitting.it/miscellanea/quanti-obiettivi-principali-ha-uno-studio-clinico-di-regola-uno-ma-spesso-non-e-cosi )

I dati di sopravvivenza globale sono basati su un numero di eventi ancora inferiore al 20% in entrambi i bracci, e non hanno evidenziato differenze statisticamente significative, anche se con un risultato numericamente migliore nel braccio sperimentale.

Si tratta del secondo studio positivo con un immunoterapico nel setting adiuvante del NSCLC, dopo i dati dell’atezolizumab. Gli autori doverosamente dedicano un paragrafo della discussione al confronto indiretto dei 2 studi, ricordando che l’analisi gerarchica prevista nello studio con atezolizumab aveva dimostrato un risultato positivo nel sottogruppo di pazienti in stadio II-IIIA con espressione di PDL1 pari ad almeno 1% e in tutti i pazienti in stadio II-IIIA, ma non nella popolazione complessiva.

Si tratta dell’ennesimo esempio di confronti indiretti tra diversi immunoterapici sperimentati in studi simili nel medesimo setting: ormai è chiaro che molte risposte sulla casualità o meno di differenze tra gli studi (inclusa, ad esempio, la non significatività dell’analisi nel sottogruppo dei casi con PDL1 elevato) sono destinate a non trovare una risposta solida e definitiva nel confronto indiretto.